Immobile

Un paesello arroccato visto dall’alto è solo un puzzle di tetti che sembrano non contenere vita: il silenzio e la pace di strade deserte e disperse come capelli lasciati al mattino sulla federa di un cuscino sgualcito. Così piccole e strette, è impossibile che possano permettere ad una persona di attraversarle, muovendocisi liberamente. E anche le case, cubi vuoti a rinchiudere turbolenze nelle interiora, appaiono come inutili contenitori. Loro, appiccicate, si parlano guardandosi negli occhi: una finestra è attaccata a quella dell’appartamento dirimpetto nello stesso vicolo stretto. La lontananza inesistente è lì per ricordare quella unica e pura volontà di appartenersi seppur nella certezza di una separazione costretta, irremovibile. Quella stessa staticità è riconosciuta ai nostri corpi, fermi ad un solo passo di distanza, capaci di scrutarsi e non di mescolarsi. 

 

Amavo l’ornamento che contornava il tuo viso: mi piaceva la verticalità di quei rami ingarbugliati in cui nascondevi pensieri, nonché la tua infinita bellezza. Preservata da sguardi indiscreti, la te più vera rimaneva sempre limpida dietro quella chioma folta. Era l’unico posto sicuro quando volevi vivere la tua fragilità. La ragione della tua debolezza risiedeva nell’essere stata a lungo incompresa e rilegata all’angolo di un’ombra che credevi non sarebbe mai più stata riscaldata dal sole. L’arma per combatterla era passarci attraverso, respirandone ogni minimo tumulto. Lo dicevi sempre che avresti voluto potare i rami secchi, che avresti voluto essere altro, e se non fosse stato possibile avresti voluto quantomeno poter cambiare i tuoi occhi e la percezione che nella tua mente aveva tutto ciò che osavi osservare. Perché, per te, tutto aveva un senso ed un significato preciso, tutto diventava insegnamento. In fondo, però, non volevi cambiare davvero perché sapevi che il tuo essere enigma non era altro che la tua espressione più chiara, la tua presa di posizione più ferma all’omologazione dei giorni d’oggi. E ne ero cosciente anch’io che non avresti mai abbandonato quella tua robusta armatura, né lo volevo. 

Quello che cercavo di fare era proteggerti e te lo dimostravo a mio modo. Ogni volta che vedevo il tuo comignolo acceso, mi lasciavi ribadire che avresti dovuto smettere di fumare. Ma la tua espressione era la medesima: quella di chi sente per la prima volta un rimprovero. Io continuavo a ripetertelo ancora e ancora e mi rispondevi che il fumo, come me, ti aiutavano a tenere calda la membrana dei tuoi sentimenti. Ti sentivi avvolta da quel calore fattosi nuvoletta ed emanata via con un atteggiamento magistralmente studiato a tavolino, come ne usavi mai in altri contesti.

Ci regalavamo conforto anche quando intorno il vento di neve ci imbiancava i panni stesi sul filo che dal mio balcone arrivava al tuo a ricordarci un legame radicale. Ci convivevamo da sempre con quell’unico punto di contatto e lo attribuivamo ad un segno del destino quell’abbraccio che non poteva succedere, quella condanna che pur ci rendeva così singolari, così noi. 

Il nostro filo di comunicazione si faceva corda quando ce n’era bisogno. Quando le tue serrande rimanevano chiuse per giorni, sapevo che non volevi aprire gli occhi per non vedere quello che succedeva intorno e preferivi sentire quello che si muoveva dentro. Con discrezione, cercavo di starti vicino stendendo lenzuola lunghe che avrebbero potuto accarezzare le tue guance delicatamente, senza mai costringerti a guardare. Lo vedevo il dolore quando le piante sul davanzale diventavano secche e tu noncurante le lasciavi lì. Ritornavi a splendere e ritornavi anche a curar le piante come se sapessi che per amare dovevi poterlo sentire l’amore, come se per curare qualcosa bisogna che anche tu sia sano. Ammiravo la tua resilienza, consapevole che anche io avevo contribuito a costruirla da quando, costretti a edifici, non potevamo vivere il nostro amore. Non avevamo bisogno di dire a parole che i nostri cuori di cemento su fondamenta resistenti erano connessi. E poi, come si fa a dire che si ama qualcuno nell’immobilità di un noi di cui non v’è possibilità? 

Anche se quel terremoto ci ha trasformato in macerie dimenticate dagli altri e da noi stessi, il mio sentimento è sopravvissuto. Logoro, sfibrato, strappato ma è sempre lì. Ed è così che i tuoi occhi sono diventati finestre, i tuoi capelli rami lussureggianti, la tua sigaretta un comignolo acceso, la tua malinconia le piante secche sul davanzale e, infine, la strada che ci tiene divisi il vessillo nero. Ma una cosa l’ho imparata: l’immortalità dell’amore nonostante l’immobilità, il per sempre racchiuso in una sola scossa di emozione. 

 

Me lo ripeto tuttora in questo scenario spettrale di un’uscita all’alba, solo per dire al giorno che sono sempre qui ad aspettarlo con coraggio. Qui ancora una volta, ancora a fare male. 

 

Maria Sola

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