Armiamoci e falliamo!

Risale a qualche settimana fa l’ennesima notizia di una ragazza morta suicida perché non ha retto alle crescenti pressioni imposte dalla società dell’eccellenza. L’ennesima, sì, perché purtroppo sono sempre di più gli episodi di morti legate ai “fallimenti” nel percorso universitario e di cui, ahimè, si parla sempre troppo poco.

Secondo i più recenti dati Istat, aggiornati al 2019, infatti, tra tutti i suicidi registrati tra gli under 34 – circa 500 – si contano quasi 200 casi che in altissima percentuale risultano essere proprio relativi a studenti universitari.

Non si tratta, quindi, di un caso isolato.

A distanza di un anno l’uno dall’altro, i cadaveri di due studenti fuorisede sono stato ritrovati a Bologna dopo che entrambi avevano invitato le rispettive famiglie alle proprie discussioni di laurea, che in realtà non si sarebbero mai tenute.

Ancora: circa un mese fa, un altro ragazzo si è tolto la vita prima dell’inizio della sessione d’esame, lasciando un biglietto con scritto “Fallimento, università e politica”; tre parole emblematiche ed irrimediabilmente legate a doppio filo alle vite di centinaia di migliaia di studenti che si ritrovano a vivere in un mondo sempre più competitivo e merito-centrico. Infatti, non c’è da stupirsi se la narrazione giornalistica lascia sempre ampio spazio a notizie del tipo “studente dei record: avrà sei lauree a 25 anni” o ancora “Federica: laurea lampo in giurisprudenza in soli tre anni e sei mesi”.

La nostra società è da sempre basata sulla cultura del merito, a scuola come in famiglia; “sei stato bravo, meriti un premio” è una frase che tutti sentono pronunciare almeno una volta nella vita. Dal sistema di valutazione scolastico a quello lavorativo, tutto passa attraverso il merito ed il successo: essere prima bravi a scuola, poi laurearsi in tempo e con il massimo dei voti all’università così da inserirsi prima possibile nel mondo del lavoro, essere competitivi e fare carriera. Ed è proprio tra le fila ordinate di un modello che esaspera il merito che inizia a serpeggiare il sentimento del fallimento, invisibile come un virus e fastidioso come un tarlo da cui difficilmente ci si libera. Se non si riesce a primeggiare a scuola, o a raggiungere i vertici aziendali, se non “hai ancora una famiglia alla tua età o sei un fallito o hai qualcosa che non va”. Il fallimento si trasforma, così, erroneamente in una colpa e il non realizzare quanto ci si era prefissati diventa qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi.

Risulta, quindi, necessario normalizzare il fallimento, renderlo passaggio obbligato attraverso il quale conoscere sé stessi ed i propri limiti, per imparare che il successo non è quello imposto dalla società, ma quello che porta a stare bene. Questo è stato il fulcro del discorso pronunciato da Emma Ruzzon, presidente del consiglio degli studenti dell’Università di Padova, all’inaugurazione dell’801º anno accademico dell’ateneo veneto. La studentessa, alla presenza della rettrice Daniela Mapelli e della ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini, ha sottolineato che purtroppo “ci viene insegnato che una vita bella e dignitosa non ci spetta di diritto, ma è qualcosa che ci dobbiamo meritare” e ha fatto riflettere la platea su quanto ormai il formarsi sia diventato secondario rispetto al performare. “Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei”, continua Ruzzon, mostrando sul leggio una corona d’alloro con un nastro verde simbolo del benessere psicologico “[…] per tutte quelle persone che non potranno indossarla, per tutte le persone che sono state o stanno male all’idea di raggiungere questa corona. Stare male non deve essere normale”.

Poi fa appello alla politica, affinché possa essere garantito un servizio di supporto psicologico “ancora troppo in fase embrionale, se si pensa che non tutte le università posseggono uno sportello di assistenza e ascolto, e anche dove è presente è sottofinanziato e di conseguenza mal funzionante”. A tal proposito, la studentessa si rivolge direttamente ai suoi colleghi

invitandoli a ricordare che “non è una sessione o la nostra media a definire chi siamo, e ricordiamoci che è legittimo chiedere aiuto e pretendere che ci siano delle strutture adeguate a darcelo”.

Dunque, “fallimento, università, politica”, come in una catena di montaggio, si susseguono in un ritmo ben scandito di causa-effetto, in cui l’ingranaggio principale, il fallimento, è messo in moto da un tipo di politica che ha fatto del merito il suo vessillo.

Il futuro resta la sfida più grande, porre fiducia in un cambiamento quella più difficile. L’urgenza di non adeguarsi è necessaria e allora armiamoci e falliamo!

 

 

Adriana Romanzi

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