Il dimissionario – ovvero come ho imparato a capire me stesso

 

Presi dalle mille emergenze, dalla pandemia alle notizie di guerra, l’opinione pubblica ha quasi ignorato un fenomeno altrettanto epocale (almeno così sembra dalle prime avvisaglie) che sta coinvolgendo buona parte dei paesi avanzati, ossia la “Great Resignation”. 

Termine coniato dal docente Anthony Klotz, identifica la tendenza alle dimissioni volontarie dei lavoratori registrata in particolar modo negli Stati Uniti ed in Europa a partire dal secondo trimestre del 2021. I numeri di questo fenomeno sono alquanto impressionanti: negli Stati Uniti dove è più evidente, dall’aprile 2021 oltre 19 milioni di lavoratori hanno lasciato la propria occupazione. Questi dati hanno proporzioni storiche anche per un’economia con un mercato del lavoro molto dinamico come quella statunitense e sembrano ancora oggi non accennare a rallentare. In Italia invece, secondo i dati del ministero del Lavoro, nel periodo tra aprile 2021 e il giugno dello stesso anno sono state ben 500 mila persone hanno rassegnato le dimissioni dal proprio lavoro. L’incremento registrato è stato del 39% rispetto al trimestre precedente e in alcuni settori particolarmente imponente. 

Quali sono dunque i lavoratori dipendenti principalmente coinvolti dalla Great Resignation? Secondo un’indagine condotta da Aidp e riportata da Repubblica (3), in Italia il profilo tipico è quello di un giovane dai 25 ai 36 anni occupato in attività impiegatizie e con un’anzianità in azienda inferiore ai 5 anni. Si può dunque parlare, forse non a torto, di un fenomeno che ha anche connotati di carattere generazionale.

In caso si confermasse come tendenza diffusa nei giovani lavoratori e in quelli del domani rappresenterà con tutta probabilità un elemento che condizionerà il mercato del lavoro e la vita delle persone in maniera strutturale. Capire quali siano le ragioni che portino così tanti giovani a cambiare lavoro diventa dunque quasi una necessità. Dando un ultimo sguardo ai dati cercando di risolvere questo arcano, possiamo constatare come alla base delle ragioni dell’impennata delle dimissioni volontarie vi sono la ripresa dell’economia, la ricerca di condizioni economiche più favorevoli in altre aziende e la necessità di riequilibrare la propria vita privata con quella lavorativa. Un dato interessante è che un intervistato su quattro abbia anche indicato come motivazione la ricerca di un nuovo senso di vita. Su queste ultime due motivazioni, ovvero la ricerca di un equilibrio tra vita lavorativa e privata e la ricerca di un senso alla propria vita, si dovrebbe incentrare quantomeno qualche ragionamento. 

Appare evidente che la pandemia abbia messo al centro la salute psicologica della persona, un aspetto che per tanto tempo in molti hanno spesso messo in secondo piano a favore di altri elementi della propria vita. Non stupisce che questo cambio di prospettiva finisca con il condizionare anche l’attività lavorativa, in un senso innovativo rispetto ai grandi cambiamenti del mondo del lavoro nel passato. 

Le rivendicazioni dei lavoratori sino ad oggi si sono concentrate difatti perlopiù sull’aspetto salariale e delle condizioni di lavoro all’interno delle aziende. Oggi ad emergere sembrano invece elementi completamente nuovi: le richieste dei lavoratori si concentrano sul cercare ritmi lavoratori più idonei non solo in un’ottica di vivibilità all’interno dell’impresa ma in uno spettro più ampio di coerenza con l’aspettativa di coniugare lavoro e vita privata. Alle richieste di carattere economico, si affianca la necessità di un lavoro che non sia solo un modo di “portare a casa la pagnotta” quanto uno strumento di realizzazione personale funzionale anche a trovare una sorta di scopo della propria vita. A tutto questo si affianca poi, in particolare fra i laureati, la richiesta di poter condurre la propria attività lavorativa da casa.

Alcuni critici dell’idea che la Great Resignation sia un fenomeno destinato a diventare strutturale, sottolineano come possa essere un effetto collaterale della pandemia (essendo esploso dopo la prima ondata di lockdown che ha coinvolto i paesi occidentali) destinato a riassorbirsi con il graduale ritorno alla normalità. Altri invece vedono in questo fenomeno l’evoluzione di una tendenza storica in atto già da decenni che vede un’opposizione sempre maggiore ad uno stile di vita stressante che ruota intorno al lavoro piuttosto che alla ricerca della felicità intesa come il perseguire le proprie passioni o il poter disporre di tempo libero. 

Il fatto che questa impennata di dimissioni sia concentrata tra i giovani e abbia motivazioni non direttamente riconducibili alla pandemia fa pendere la bilancia (almeno a livello personale) verso l’ipotesi che andremo verso un mondo nel quale i lavoratori saranno disposti a dimettersi anche più volte dal proprio lavoro se insoddisfatti con ben poche remore. Dimissioni in cerca di un impiego che faccia sentire appagati e che sia coerente con gli interessi e le aspirazioni della persona. Un elemento alle quali le imprese dovranno prestare attenzione se non vorranno emorragie di impiegati. Un mondo dove la figura del dimissionario in cerca di sé stesso la farà da padrone. 

 

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