FRUTTO DEL GENIO O COLTRE DEL MITO?

“Ma nel romanzo, le tende sono blu perché simboleggiano la disperazione che il protagonista si porta dentro o semplicemente perché le tende sono blu?”

 

“Hanno sempre fatto delle grandi analisi del testo parlando di allegorie, di simboli e di figure stilistiche che per me non hanno nessun valore. La verità è che avevo semplicemente scritto un libro su Nola e su di me” – queste sono le parole di Joël Dicker per bocca di Harry Quebert, protagonista dell’omonimo romanzo “La verità sul caso di Harry Quebert” (2013), best-seller che offre un più che comodo trampolino di lancio per parlare del rapporto tra il genio e la sua fama.

sopra: scena dalla mini-serie televisiva “Il Caso di Harry Quebert”, diretta da Jean-Jacques Anneau

 

Il mito del genio è un patrimonio giunto dal lontano Romanticismo (ndr. movimento artistico, culturale, musicale e letterario sviluppatosi al termine del XVIII secolo in Germania). Trai diversi meriti del movimento si conta una vera e propria rivoluzione dell’approccio al fantastico: se prima del Romanticismo l’inventio era capacità elaborativa, il talento di guardare al passato e rivisitarlo secondo la propria invettiva, con il movimento romantico si stravolge (ancora una volta) il passato così da giungere all’inventio come vera e propria forza creativa; la genialità dell’autore sta dunque nella sua capacità di offrire dal nulla un frutto del suo estro ed il genio è a seguire un “visionario” di irrazionale talento, guidato da “una forza al di sopra del proprio controllo e un’abilità che sorpassa il naturale ed eccede la mente umana” (Wikipedia.it). È un’idea che si farà spazio a fatica tra i cosiddetti “autori di passaggio” (i “romantici” cresciuti nella cultura classica quali Leopardi o Foscolo) ma che una volta messe le radici nel tessuto culturale riuscirà a lasciare il proprio segno nei secoli a venire.

sopra: C. D. Friedrich, “Il viandante sul mare di nebbia” (1818)

 

Si arriva così ai decantati geni che hanno lasciato la loro impronta nell’inarrestabile progresso letterario, autori che coi loro mezzi e per le loro ragioni si sono meritati un capitoletto delle antologie di ogni scuola, con tanto di biografia e spiegazione del pensiero, da imparare rigorosamente a braccetto con il testo. E in risposta agli studiatissimi enjambements, i pensatissimi collegamenti ipertestuali e i ricchissimi simbolismi insorgono pure gli scettici, che dinnanzi al tanto acclamato talento si chiedono quanto di questo genio sia il conscio frutto dell’autore e quanto nasca invece dalla sua glorificazione.

 

A lanciare questa provocazione non sono i soli accademici ma anche i “comuni” sul Web, che testimoniano in linea diretta il possibile processo all’intenzione attraverso i memes, considerabili delle effettive fonti secondarie non solo perché prodotti dell’esperienza quotidiana ma anche perché finalizzati all’ironia su un fatto o esperienza diffusa.

sopra: foto dal web

 

Il mito del genio troverebbe un’intuitiva spiegazione nel bias di conferma, “fenomeno cognitivo per il quale le persone tendono a muoversi entro un ambito delimitato dalle loro convinzioni acquisite” (Wikipedia.it). Detto in parole povere, se si considera una persona antipatica si sarà più inclini a recepire fatti e episodi che ne confermino la supposta antipatia e lo stesso può accadere per l’eventuale “genialità” di una persona o, in questo caso, di un autore.

 

L’errore non sarebbe di per sé tragico, dato anche a sapere dello stretto rapporto che biografia ed opera dell’autore possono avere al fine della comprensione del testo; tuttavia, questa glorificazione inizia a diventare un problema quando il genio dell’autore diventa così ingombrante nella percezione dell’opera da non lasciare spazio all’interpretazione soggettiva dell’opera.

 

A seguito di questo comune equivoco, il professore inglese Andrew Bennett ha parlato nel suo recente saggio “Un Introduzione alla Letteratura, Critica e Teoria” (2016) dell’idea di autore come “Dio”, ovvero come “presenza” da cui il significato dell’opera dipende.

 

“Anche se andassimo da un autore vivente e gli chiedessimo cosa intendeva dire con un particolare testo, tutto ciò che otterremmo sarebbe un altro testo (la sua risposta), che poi, a sua volta, sarebbe aperto all’interpretazione. Solo perché viene “dalla bocca del cavallo”, non significa che il cavallo stia dicendo la verità, o che il cavallo conosca la verità, o che ciò che il cavallo ha da dire sulle “parole sulla pagina” sia più interessante o illuminante di ciò che chiunque altro potrebbe dire.

da “An Introduction to Literature, Criticism and Theory” di A. Bennett (2016)

 

La critica ha spinto più intellettuali ad interessarsi ad una nuova narrativa, dove l’autore non viene completamente “rimosso” dalla percezione dello spettatore, quanto ridimensionato a “fantasma” all’interno della propria opera. È dunque con la “morte dell’autore” che il lettore ha sufficiente respiro per poter dare una sua personale interpretazione e dunque poter meglio avvicinarsi all’opera. Si parla non a caso di “nascita del lettore”, concetto adiacente e conseguente alla “morte dell’autore”.

 

“Ora sappiamo che un testo non è una linea di parole che rilascia un unico significato ‘teologico’ (il ‘messaggio’ dell’Autore-Dio) ma uno spazio multidimensionale in cui una varietà di scritti, nessuno dei quali originale, si fonde e si scontra. Il testo è un tessuto di citazioni tratte dagli innumerevoli centri di cultura. Una volta rimosso l’autore, la pretesa di decifrare un testo diventa del tutto inutile. Dare a un testo un autore significa imporre un limite a quel testo, dotarlo di un significato finale, chiudere la scrittura.”

da “La morte dell’Autore” di Ronald Barthes (1967)

 

sopra: foto di Ronald Barthes (1915-1980), autore del saggio “La morte dell’autore” (1967)

 

Un ulteriore spunto lo dà il poeta italiano Giuseppe Ungaretti: secondo il poeta il significato di una poesia non è conoscibile dall’uomo, e anche se fosse, rimarrebbe inesprimibile. In questo senso, l’interpretazione di una poesia non diventa un solo atto di superbia del lettore, quanto anche una violazione dell’attimo in cui la parola riesce ad esprimere “la totalità e la pienezza dell’essere”, solo grazie rapporto analogico che si instaura tra i due elementi.

 

                              

sopra: foto di Giuseppe Ungaretti (1888 – 1970)

 

Intellettuali come Ungaretti, Bennett e Barthes sembrano suggerire all’unisono la fallacia dietro la glorificazione dell’autore, ai danni sia del lettore che della parola. Ci si potrebbe persino spingere che, a portare un autore a sopravvivere nel tempo non è la sua soprannaturalità, quanto la sua umanità, capace di smuovere e provocare il lettore negli anni a venire. Perché anche noi come Dante Alighieri saremmo desiderosi, poco prima di uscire dalla palude, di vedere immergere il nostro Filippo Argenti nella melma degli iracondi; perché anche noi come Mr. Darcy potremmo non avere il dono della facile conversazione e risultare altezzosi nella nostra goffaggine; perché anche noi, come l’autore, siamo umani.

 

Sara Magnacavallo

 

FONTI:

https://www.pearson.it/letteraturapuntoit/contents/files/ossola_poetica.pdf

https://it.wikipedia.org/wiki/Romanticismo

https://en.wikipedia.org/wiki/Genius_(literature)

https://hisdoryan.co.uk/memes-as-historical-sources

https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_alone

https://it.wikipedia.org/wiki/Bias_di_conferma

https://it.wikipedia.org/wiki/Roland_Barthes

https://en.wikipedia.org/wiki/The_Death_of_the_Author

http://www.luzappy.eu/lirica_moderna/unga_poetica.htm

 

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *