“Tremate tremate, le streghe sono RI-tornate” 

 

Ad un primo impatto, parole come strega, queer e curvy suscitano emozioni contrastanti.  Nonostante ciò, le community a cui si riferiscono hanno deciso negli anni di smettere di combattere  contro queste etichette sminuenti non eliminandole dal proprio vocabolario, al contrario,  adottandole come scudo contro l’omotransfobia, la grassofobia e il patriarcato. Già negli anni ’70,  con la nascita della cosiddetta seconda ondata femminista nel contesto italiano, coloro che lottavano  per i pari diritti crearono lo slogan “tremate tremate le streghe son tornate”, volto proprio a  sradicare decenni (secoli?) di oppressione femminile da parte dell’inquisizione spagnola e romana  durata quasi fino alla metà del XIX secolo. Il movimento di caccia alle streghe si è prolungato così  a lungo da creare un immaginario specifico difficilissimo da sradicare, che va a colpire tutto ciò che  non è conforme. Il risultato è che, a distanza di quasi due secoli dalla fine delle Inquisizioni, ancora  si scrivono saggi e monografie sul tema. Nel 2021 in particolare sono usciti due libri, “Streghe: una  storia di terrore dall’antichità ai giorni nostri” di R. Hutton e “Il femminile mostruoso” di J. E.  Sadie Doyle. I due autori hanno dimostrato che la paura per il femminile può trasformarsi in  un’arma positiva per il movimento femminista. Infatti, le femministe degli anni ’70 scelsero di  chiamarsi “streghe” per dimostrare che elementi come l’indipendenza, l’andare contro corrente e  non tenere conto del giudizio altrui si sono trasformati ora in qualità (almeno nel mondo  occidentale). 

Un altro caso di riappropriazione del termine “strega” sono i due libri (con relativo podcast), scritto  da M. Murgia e C. Tagliaferri, “Morgana” (2019) e “Morgana: l’uomo ricco sono io” (2021).  Nell’introduzione ai podcast le due autrici esordiscono con «Questo spazio si chiama Morgana  perché le rappresenta tutte, un po’ fate e molto streghe», mettendo fine al binomio strega-maligno.  Nonostante i vari tentativi della cultura pop e del mondo accademico di porre fine al pregiudizio  negativo sulle streghe, nella lingua italiana persistono frasi sminuenti verso l’universo femminile:  modi di dire come “sei una strega”, riferiti solo e soltanto a persone di sesso femminile, non hanno  un corrispettivo maschile. Esiste l’equivalente “stregone” ma indica un personaggio positivo, dotato  di poteri sovrannaturali e un sapere che va oltre la mente umana. Infatti, se provassimo a dare dello  stregone ad un uomo è improbabile che si offenda, ne sarebbe quasi lusingato. Il doppio standard,  che divide continuamente uomini e donne, non si trova soltanto in casi eccezionali ma persiste nella  nostra quotidianità. 

Un caso storico di doppio standard è il nome con cui veniva chiamato il 588° reggimento, un  gruppo di donne pilote russe che durante la Seconda guerra mondiale aiutarono la propria nazione a  scampare il pericolo nazista. Il gruppo fu immediatamente ribattezzato “streghe della notte” dagli  avversari tedeschi. Da lì in poi, le soldatesse, che volarono con i loro aerei dal 1941 fino alla fine  della guerra, furono ricordate per sempre con questo epiteto.  

Oggigiorno, è stato tentato uno svuotamento di significati e l’addomesticamento della parola strega,  soprattutto con film come “Kiki: consegne a domicilio” di Hayao Miyazaki e la serie animata e  fumetto “W.I.T.C.H” della italiana Elisabetta Gnone. Un caso analogo, anche se opposto per  messaggio, è il libro per bambini “Le streghe” di Roald Dahl. Non a caso, per la Walt Disney  Amelia è la strega cattiva che tenta ogni via per derubare Paperon de Paperoni mentre Topolino in  veste di stregone è semplicemente un giovane che gioca a fare il mago.  

A proposito dell’addomesticamento di certe parole, non deve ridursi alla semplificazione della  realtà ma aprire la possibilità al dialogo e confronto continuo. 

Come già accennato all’inizio, non è la lingua a dover cambiare ma il significato che attribuiamo ad  un termine. Così come fino a pochi anni fa “curvy” era un termine da prendere con le pinze, si è  finalmente cominciato a prendere in considerazione ciò che prima risultava inconcepibile. Anche la  parola “queer”, aggettivo che copre lo spazio di tutto ciò che va oltre la sigla LGBTQ+,

inizialmente usata per offendere chi non si conformava sessualmente, oggi è utilizzato per svelare  decenni di segregazionismo della community non-binary.  

È importante quindi, continuare a decostruire non solo i fatti fisici ma anche l’immaginario  persistente intorno alla lingua e al parlato di tutti i giorni perché, si sa, la rivoluzione inizia anche  dalla parole. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *