Degenerazioni: Il lockdown a teatro

Con lo spettacolo Degenerazioni, andato in scena giovedì scorso al Teatro della Passioni (nonché, particolare interessante, trasmesso in diretta streaming su Facebook), la drammaturga Nadia Terranova (finalista premio Strega 2019 con il suo romanzo Addio Fantasmi) si è cimentata in un’impresa non da poco: raccontare attraverso il medium teatrale un fatto di attualità, o meglion un periodo della storia recente ancora ben vivido nella memoria degli spettatori. Ebbene sì: degenerazioni parla della quarantena, di quella stasi straniante e inaspettata in cui il paese si è trovato catapultato dai dpcm marzolini del presidente Conte, emanati nella necessità di contenere la pandemia da Covid-19.
Interpretare, attraverso l’arte, la realtà è inevitabilmente un esercizio difficile, soprattutto se in  platea siedono i testimoni diretti della vicenda rappresentata. Dubito che gli ex amanti di Marie Duplessis, la cui presenza alla prima assoluta della Traviata nel 1853 non può essere esclusa, non abbiano avuto qualcosa da eccepire sulla versione della cortigiana parigina che Verdi fece gorgheggiare in scena a soli sei anni dalla morte… Ma la rispondenza al vero di un’opera d’arte ci interessa fino a un certo punto.
La Terranova ha scelto di dar voce a un’esperienza collettiva (che molti hanno definito, forse per consolarsi, “unificante”: diremo un giorno che è stato il virus a fare gli italiani?) attraverso voci, più che personaggi. Dinanzi a un leggìo in primo piano si avvicendano gli attori, che enunciano con dizione perfetta il poema della nostra paura.

La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana;

Una citazione da Le assaggiatrici (romanzo storico di un’altra donna di punta della letteratura italiana contemporanea, Rossella Postorino) introduce il tema ovvero il problema attorno a cui ruota lo spettacolo: l’adattamento, appunto. Le figure che perlopiù monologano in scena, ritratte in ambienti al chiuso (una cucina, un bagno) o all’aperto (un balcone, vicino ai cassonetti dell’immondizia adiacenti al condominio) sono mosaici delle esperienze di tutti, megafoni di una poco esaltante ma vera condizione di eguaglianza nella reclusione. C’è chi riscopre gli elettrodomestici che non usava più, come il telefono fisso, la lavatrice (il vorticare ipnotico della quale diventa una benvenuta distrazione dalla solitudine), la tv.
E la televisione diventa il fulcro dell’attenzione generale nel momento in cui trasmette le notizie, pur se in maniera talmente confusa e incoerente da risultare comica (oggi certo più che allora). C’è anche Conte, l’uomo al comando, l’icona paterna che, con volto rasato e gesticolare geometrico, cerca di convincere gli italiani a rispettare le nuove norme. In una delle scene più riuscite e divertenti dello spettacolo, Giuseppi appare addirittura in sogno ad una delle protagoniste: fra il suadente e l’inquietante, indossa la veste del professore di diritto e inizia ad interrogarla sugli articoli dell’ultimo dpcm.
Mentre un po’ tutti si scontrano con le rigidità e i divieti dello stato d’emergenza, qualcun altro fa a pugni con il desiderio. L’”estizzazione” forzata fa mordere il freno ai più giovani e non solo. Ma uscire di casa non si può, il contatto umano è ormai sinonimo di contagio. Anche per vedere la luna si è costretti a muoversi in clandestinità. Qua e là si cita Shakespeare, scimmiottando Romeo sulle ali di un’Ichnusa non filtrata. Se qui, come nei momenti più lirici, vengono meno il realismo e la relatability da parte del pubblico in sala, emerge però l’elemento metateatrale. E’ comprensibile che un’opera di drammaturgia scritta a ridosso di un periodo così drammatico per il teatro stesso si richiami anche alla tradizione plurisecolare di questa istituzione sociale unica, che rappresenta una ricchezza per tutti nonostante gli ultimi tempi piuttosto bui e di magra.
La rappresentazione di quest’opera che ha ad oggetto la crisi sanitaria ha dovuto poi nei fatti fare i conti con le sue conseguenze (che secondo alcuni si avviano a divenire consuetudini sociali capaci di durare nel tempo): mascherine ben aderenti a naso e bocca, detergente all’ingresso per disinfettare le mani e prenotazione online dei posti a sedere, purtroppo diminuiti in maniera drastica per la necessità di mantenere un distanziamento sociale fra gli spettatori.
Di fronte a questi temibili ostacoli tuttavia non ci si è persi d’animo: cogliendo l’occasione di una collaborazione con Modena Smart Life, il festival della cultura digitale nell’ambito del quale è stato allestito lo spettacolo, anche il teatro ha provato a reinventarsi, ad adattarsi al nuovo mondo del dopo covid. Così Degenerazioni è stato filmato in diretta (grazie a bravissimi cameramen che si muovevano sul palco in totale sintonia con i movimenti degli attori) e trasmesso in streaming sulla pagina Facebook del festival. Quel che ne esce è un dispositivo artistico ibrido, che richiama il cinema ma anche la performance art.
Come non chiedersi, poi, se la sottrazione della compresenza di attori e pubblico, aspetto così essenziale al teatro stesso, possa lasciarne indenne il concetto? E quanto al sentimento che fonda l’esperienza teatrale, quel riunirsi attorno al fuoco e credere, è stato affievolito o pregiudicato dalla mediazione tecnologica del social, per chi ha assistito alla rappresentazione da casa? L’esperimento di Degenerazioni è stato un tentativo di adattamento nella direzione giusta, o si è trattato di una degenerazione, di una de-umanizzazione del teatro
stesso? Ai posteri, come si dice, l’ardua sentenza. La gente di teatro ama essere scaramantica. E’ più un vezzo che una reale convinzione, esibito come segnale d’appartenenza al circolo dei theatergoers, simbolo di un’orgogliosa adesione al patto teatrale, l’unico stretto fra adulti con una solennità da bambini. Il divieto di nominare il titolo di una certa tragedia scozzese quando si assiste a una rappresentazione è solo il più famoso elemento di questo curioso sottobosco folcloristico. Io frequento il teatro solo di tanto in tanto e la scaramanzia proprio non mi appartiene. Ciò detto, dopo gli inchini e gli applausi (assai meritati) al termine dello spettacolo di giovedì scorso mi ha accompagnata fuori dalla porta e fino a casa una sensazione di disagio difficile da identificare. Sono state le notizie al tg che mi hanno consentito di metterla a fuoco: contagi che risalgono in tutta Europa, nuovi lockdown localizzati, la seconda
ondata sta arrivando.

Ora, non voglio credere che con Degenerazioni la Terranova abbia “parlato troppo presto”, commemorando un evento non ancora concluso e destinato a ripetersi (quest’ultima ipotesi non è solo scaramantica, ma anche economicamente al di fuori della nostra portata). Ma è chiaro che l’adattamento sperimentato da tutti noi e dai personaggi del suo spettacolo non è stato un adattamento completo, nel senso di una riuscita rieducazione ad un diverso modo di vivere, permanente e duratura. E forse è un bene che noi umani restiamo animali, desideranti e dinamici, senza bonsaizzarci fra le quattro mura domestiche. Tuttavia le lezioni del virus vanno imparate, le esperienze ad esso legate elaborate; altrimenti la scorsa primavera sarà stata persa invano, e al benchè godibile spettacolo di Nadia Terranova dovrà aggiungersi un sequel ridondante e innecessario.

Lucia Bezzetto

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