Una scelta difficile

Era l’8 novembre 2016. Sicuri della vittoria, sotto un imponente soffitto di cristallo i democratici festeggiavano la prima donna presidente degli Stati Uniti d’America. Ad un tratto, però, quando le principali emittenti televisive cominciarono a proiettare i risultati dello scrutinio, la gioia si tramutò in preoccupazione e la rabbia prese il sopravvento sulla speranza. 

A mezzanotte era ormai tutto chiaro: Hillary Clinton, colei che era destinata ad essere la prima donna a guidare la nazione più potente del mondo, era stata sconfitta. A batterla però non era stato uno avversario qualunque. A rubarle l’ingresso nella Storia era stato Donald Trump, l’arrogante miliardario newyorkese che aveva sorpreso tutti pochi mesi prima sbaragliando i suoi contendenti alle primarie del partito Repubblicano con le sue idee isolazioniste, xenofobe e fortemente conservatrici, per non dire reazionarie.

Da allora il mondo progressista vive nell’incubo di quella notte, nel disperato tentativo di riavvolgere il nastro, di tornare indietro a quei giorni in cui la Casa Bianca era domicilio di Barack Obama e gli Stati Uniti non sembravano un paese lacerato da divisioni e intolleranze.

Dopo quattro anni passati a subire le angherie e le provocazioni di un presidente a dir poco ostile, per l’elettorato democratico è giunto il momento di affrontare la scelta del campione che il prossimo 3 novembre dovrà sfidare Trump e tentare di sottrarre alle sue grinfie il governo del paese.

Inizialmente i candidati a questo ruolo erano più di venti, ma lo scorso 3 marzo (il cosiddetto “Super Tuesday”, giorno in cui si vota in ben 10 stati) a sfidarsi erano rimasti ormai soltanto in tre: la senatrice Elizabeth Warren, il senatore Bernie Sanders e l’ex vice-presidente Joe Biden.

L’ascesa, apparentemente inarrestabile, del senatore Sanders è stata invero frenata da una straordinaria rimonta di Biden, che è riuscito a guadagnarsi il consenso dei moderati e a conquistare il Texas e gran parte degli stati del sud, lasciando a Sanders la ricca California. Infatti le primarie, così come le presidenziali, non prevedono un’elezione diretta; la nomination democratica andrà, attraverso dei delegati eletti a livello statale, a colui che riuscirà ad ottenerne 1991 e a conquistare così la maggioranza alla Democratic National Convention del prossimo luglio. 

Dopo aver ottenuto uno scarso risultato in generale e in particolare nel suo stato, il Massachusetts, Elizabeth Warren, l’ultima donna rimasta nella corsa alla nomination, ha deciso di ritirarsi, lasciando a contendersi il campo democratico gli ultimi due candidati rimasti, entrambi maschi ed entrambi molto anziani.

Joe Biden è dunque divenuto l’assoluto favorito dopo il trionfo del 3 marzo. L’ex vice di Obama aveva cominciato la sua campagna in modo molto timido e sembrava non potesse avere la forza per opporsi ai suoi avversari, ma dopo aver incassato la maggior parte degli endorsement del suo partito e aver compattato l’ala moderata dell’elettorato democratico intorno alla sua candidatura, appare ormai come il potenziale vincitore. Abile, simpatico e di grande carisma, Biden non sembra avere però una grande visione di America da contrapporre a quella del presidente Trump. Tuttavia, la sua figura riesce facilmente a catturare quanti vorrebbero riportare indietro le lancette dell’orologio agli anni dell’amministrazione Obama, anni in cui la politica era ancora in grado di destare fiducia e speranza nel cuore delle persone. Purtroppo, non basta tutto questo a rendere Biden un candidato “forte”. Quella di Biden rimane infatti una candidatura di servizio, ispirata dal senso del dovere e dalla volontà dell’anziano politico di sottrarre il suo partito e la nazione alla lotta senza quartiere tra l’estremismo di Trump e il massimalismo populista dell’ala sinistra del partito democratico. L’ex vicepresidente, simbolo di una stagione politica diversa e senz’altro più luminosa, appare dunque infiacchito dal tempo e dal fato (come recita un immortale verso di Tennyson), ma fermo nella volontà di non arrendersi. Resta da vedere se questo basterà a vincere la sfida per la nomination e a sottrarre il secondo mandato all’odiato presidente repubblicano.

L’altro candidato, pronto allo scontro finale con l’anziano Biden, rappresenta la vera sorpresa della politica americana degli ultimi anni. Il senatore del Vermont, Bernie Sanders, era dato per vincente fino a poco tempo fa, ma ora pare ridotto ad un amara seconda posizione dopo la recente rimonta del suo avversario. Burbero e scontroso, Bernie è l’opposto dello stereotipo del presidente americano, bello, elegante e carismatico, alla Reagan. Tuttavia, dopo una vita passata da outsider al Senato, è riuscito a guadagnarsi la fiducia di una larga fetta del popolo liberal, sopratutto i più giovani e quanti non si riconoscono più nella politica del compromesso che il partito democratico, con fatica, porta avanti dai tempi di Clinton. Dopo la passata candidatura alle primarie del 2016, l’ascesa del senatore del Vermont, che si autoproclama Socialista, è stata inarrestabile: in breve tempo le sue idee, un tempo giudicate radicali e improponibili, hanno contagiato larga parte dei militanti del partito democratico e, talvolta, la maggioranza degli americani. Un esempio è il famoso programma del “Medicare for all”, l’assistenza sanitaria universale gratuita, che oggi gode del sostegno dell’assoluta maggioranza degli americani, anche a causa delle fragilità del sistema sanitario statunitense e delle speranze tradite dall’Obamacare, il tiepido progetto di riforma faticosamente approvato dal Congresso e furiosamente osteggiato dai repubblicani.

Senza dubbio l’energico socialista del Vermont sembra dotato di una grande visione e di un cuore imperioso, tutte caratteristiche che il leader progressista William Allen White attribuiva al presidente Wilson, il presidente democratico che diede vita alla Società delle Nazioni. Nonostante ciò, la sua non sembra essere una candidatura in grado di unire tutto il partito. Spesso le proposte del senatore vengono tacciate da esperti e politici moderati di essere troppo vaghe o irrealizzabili, quando non estremamente populiste. Sanders infatti propone un gigantesco programma di spesa pubblica per finanziare l’assistenza sanitaria per tutti gli americani, i college gratuiti e il programma di conversione ecologica dell’economia americana denominato “Green New Deal”, che da quando è stato lanciato al Congresso dalla neodeputata socialista Alexandria Ocasio-Cortez ha visto non poche (sbiadite) emulazioni in molti paesi del mondo, Italia compresa. Le risorse per finanziare questa immensa spesa arriverebbero in parte sicuramente dall’aumento delle tasse sulle grandi aziende e sui miliardari, proposta abbastanza condivisa all’interno del partito, ormai spostato decisamente a sinistra, ma altre coperture potrebbero giungere da fonti inaspettate. Sanders infatti, come altri politici radicali, si avvale della consulenza di economisti seguaci della MMT (Modern Monetary Theory), la teoria economica di stampo statalista che vede nell’emissione di moneta la chiave per sostenere un aumento infinito del debito pubblico, senza grosse conseguenze sulla valuta, cosa che viene contestata dalla stragrande maggioranza degli esperti. Oltre alle critiche relative alle sue proposte, un altro degli aspetti più controversi della campagna elettorale di Sanders è il comportamento spesso aggressivo ed intollerante di alcuni suoi sostenitori che, ignorando l’invito all’unità del loro leader, inquinano la rete con attacchi violenti, insulti e talvolta minacce rivolte ad esponenti del partito democratico o sostenitori di altri candidati. Nonostante il clima assai teso che si respira tra le fila dei suoi supporters, Sanders non si è speso troppo nella condanna di tali comportamenti, forse per il timore di disperdere l’entusiasmo e il sostegno dei tanti giovani che lo seguono e che sono un patrimonio importante per la sua campagna, dal momento che molti di loro, disillusi in ugual modo da entrambi i partiti tradizionali, non si recherebbero mai alle urne se non avessero la possibilità di trovare sulla scheda il nome del loro favorito. Se vuole rimanere in corsa, il prossimo 10 marzo Sanders dovrà riuscire a totalizzare un buon numero di delegati in Michigan, stato nel quale 4 anni fa ottenne un sensazionale 50% dei voti, contro Hillary Clinton. Un’impresa non impossibile ma resa ardua dall’endorsement per il suo avversario dell’attuale governatrice dello stato, Gretchen Withmer, astro nascente del firmamento democratico.

Mentre sul fronte democratico dissapori e rivalità potrebbero costituire un ostacolo all’emergere di una leadership forte in grado di guidare il paese, sul fronte repubblicano sembra ormai che Trump non abbia più rivali. Il presidente, che ai tempi della vittoria del 2016 si era trovato dinanzi al muro di un establishment di partito ostile e diffidente, ha oggi sbaragliato tutti i suoi rivali interni, trovandosi così a dominare incontrastato un partito repubblicano completamente in ginocchio e asservito ai suoi capricci. Un esercito di deputati e senatori pronti a difendere e supportare qualsiasi provvedimento deciderà di proporre per il suo secondo mandato, sembrano consci di trovarsi davanti all’unico leader nel loro schieramento in grado di capire, sedurre e mobilitare un elettorato conservatore sempre più fiero e rabbioso.

È Donald Trump, l’attuale inquilino della casa bianca, l’ossessione del mondo progressista americano. I militanti democratici sono stanchi delle continue provocazioni, del linguaggio vernacolare, dei colpi bassi, degli insulti alle donne e alle minoranze, della riforma fiscale sfacciatamente in favore dei ricchi, dei bambini rinchiusi in gabbia alle frontiere, e vedono nella sua defenestrazione una vera e propria missione. Ovviamente la scelta di chi sarà a sfidare il presidente riveste un ruolo centrale in questo proposito, gravando queste persone di una responsabilità enorme.

In un’America ormai lacerata dalle divisioni stanno per andare in scena le elezioni che decideranno quale sarà il volto del paese (e forse di tutto l’Occidente) nel futuro. Forse sarà il volto di una nazione arrabbiata, divisa tra due estremismi, quello pauperista ed intransigente di Sanders e quello gretto e autoritario di Trump. O forse a prevalere sarà il volto malinconico e nostalgico dell’America di Biden, intrappolata nella negazione di un fallimento che, però, c’è stato e ha cambiato la storia per sempre. Quel che è più probabile è che da questa disputa uscirà un’America sofferente, spaesata, impossibilitata ad invertire la crisi politica e culturale che rischia di compromettere la vera missione degli Stati Uniti: costruire un paese indivisibile con libertà e giustizia per tutti.

Pietro Borsari

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