L’America al bivio

Dopo mesi nei quali i nostri pensieri sono stati rivolta al dramma della pandemia nel nostro paese e in Europa, è giunto il momento di portare il nostro sguardo ancora una volta al di là dell’oceano, in quegli Stati Uniti che tra meno di un mese si troveranno ad affrontare un appuntamento elettorale storico per la sua unicità.

Dopo quasi quattro anni passati sotto la guida di una presidenza caotica e ricca di colpi di scena e sorprese (per lo più spiacevoli, direbbero i più maliziosi), l’America si è ritrovata catapultata come il resto del mondo nell’emergenza dell’epidemia da Covid19, un incubo che oggi ha già portato via con sé più di 218000 vite americane e trascinato il paese nell’inverno della recessione economica. Alimentate dalla rabbia sociale e dalla disoccupazione prodotta dalla crisi economica, le tensioni sociali e razziali che da sempre divorano periferie e ghetti nelle più grandi città americane, sono esplose nelle strade in seguito all’omicidio di George Floyd, un caso che ha rotto il velo di omertà che da decenni copriva le violenze sistemiche delle forze dell’ordine sulla popolazione afroamericana. Centinaia di manifestanti hanno marciato per le strade di tutta l’America al grido di “Black Lives Matter”, uno slogan che ha presto fatto il giro del mondo, divenendo, per una parte dell’America, il messaggio di un popolo oppresso che si scaglia contro le contraddizioni di un passato ancora troppo ingombrante, e, per l’altra, la bandiera di quelle violenze e devastazioni che purtroppo hanno spesso accompagnato le pacifiche manifestazioni antirazziste.

Sullo sfondo di un paese sconvolto e ferito, afflitto dalle divisioni e incapace di reagire con forza alla morsa del virus, intanto va in scena una delle campagne elettorali più strane che la storia americana abbia mai visto.

Dopo una lunga guerra a distanza, fatta di frecciate, insulti e colpi bassi (per lo più provenienti dalla Casa Bianca), finalmente il 30 settembre i due contendenti, il presidente Trump e il suo avversario Joe Biden, si sono cimentati in un delirante dibattito in diretta televisiva sulla ABC.

I due anziani sfidanti sono riusciti nell’ardua impresa di deludere le già magre aspettative di serietà che gli americani riponevano nel confronto televisivo. Due ore e mezza durante le quali difficilmente gli spettatori sono riusciti a cogliere qualche idea o proposta utile all’America di domani, a causa del confuso chiacchiericcio prodotto dal litigio inscenato dai due protagonisti, troppo presi a battibeccare per svolgere con dignità quella consolidata liturgia dibattimentale che dovrebbe orientare la scelta elettorale dei cittadini.

Senz’altro non hanno contribuito alla creazione di un clima di serietà l’atteggiamento provocatorio e la truce spacconeria dell’ospite d’onore, Donald Trump. Il presidente in carica non ha infatti perso occasione per rimarcare agli occhi degli elettori la sua proverbiale antipatia, arrivando persino ad attaccare Biden, un uomo al quale la vita non ha certo risparmiato dolori e sofferenze, sulla dipendenza del figlio Hunter. Un colpo basso di una viltà disarmante, che di certo non ha aiutato la riabilitazione mediatica del quale in questo momento avrebbe sicuramente bisogno, visti i sondaggi di popolarità che lo vedono drammaticamente in svantaggio.

Trump sembra non voler abbandonare quella strategia comunicativa che quattro anni fa gli aveva permesso di incantare l’elettorato repubblicano. Quella sua irriverenza e quel suo linguaggio ruvido e prepotente che lo avevano reso il cantore della rabbia sociale di quella parte d’America lasciata indietro dai processi di globalizzazione e dalla crisi dell’industria dell’acciaio, oggi difficilmente riusciranno a raggiungere un elettorato in cerca, piuttosto, del caldo e rassicurante abbraccio della normalità.

Oltre alle boutades, Trump non ha però risparmiato anche qualche nota inquietante. Dinanzi alla richiesta del moderatore del dibattito (Chris Wallace di Fox News) di prendere le distanze dai movimenti suprematisti di estrema destra che alimentano le violenze nel paese, il presidente prima è stato elusivo poi, guardando la telecamera, ha detto “Stand Back, Stand by”. Queste quattro parole, dal significato ambiguo ma molto chiare per coloro alle quali erano di fatto indirizzate, sono presto divenute un popolare slogan su internet e campeggiano ora sul profilo Telegram dei “Proud Boys”, noto gruppo della destra radicale e violenta al quale il monito era rivolto.

Questo dibattito non si è rivelato fruttuoso, però, nemmeno per Joe Biden che, pur sovrastando di ben dieci punti il suo avversario in quasi tutti i sondaggi, è apparso stanco e affaticato durante il confronto, forse scosso dai numerosi attacchi, anche personali, del presidente in carica.

Biden nelle settimane precedenti aveva risposto in modo molto risoluto a quanti lo ritenevano troppo pacato per resistere alle ciniche provocazioni del rivale, dichiarandosi ancora in grado di “sistemare un bullo”. Purtroppo, l’infelice esito dello scontro non gli ha dato ragione.

Il clamore suscitato dal primo dibattito presidenziale è stato immediatamente soffocato dalla notizia della positività di Trump al Coronavirus. C’è chi ha parlato di karma o giustizia poetica, visto il noto scetticismo del presidente in merito all’allarme sanitario e alle sue battute sull’utilizzo della mascherina, tuttavia non è chiaro quali effetti potrà avere questo evento sulla campagna elettorale. Dopo pochi giorni Trump ha comunque fatto ritorno alla Casa Bianca, che ormai figura come un focolaio di contagi nel quale i dipendenti vengono invitati a mantenere lo stesso atteggiamento irresponsabile del loro capo, recandosi in ufficio con i sintomi della malattia ed evitando di disporre di qualsiasi protezione. Risulta sconcertante poi la mancanza di trasparenza dimostrata dall’amministrazione circa le condizioni dello staff e del presidente: il medico personale di Trump si è trovato più volte a dover ritrattare le sue affermazioni sulla salute del capo dello Stato, mentre continuano le fughe di notizie sulla positività dei collaboratori più stretti.

In questo clima di allerta e confusione si è svolto il 7 ottobre, dietro due vistosi schermi in plexiglass, il confronto televisivo tra i candidati alla vicepresidenza, sul quale i media e l’opinione pubblica avevano riposto grandi aspettative, vista la deludente performance offerta dai frontmen dei due principali partiti la settimana prima.

L’attuale VP Mike Pence e Kamala Harris, la senatrice della California al fianco di Joe Biden, non sono riusciti a brillare, anche se sono stati in grado di mantenere il dibattito sui binari della reciproca correttezza, evitando insulti e frecciate gratuite. Entrambi i candidati hanno però eluso le domande più spinose, cercando di spostare il più possibile l’accento sulle contraddizioni dell’avversario. Pence ha preferito parlare di tasse che della lotta al coronavirus (nonostante sia a capo della task force che se ne occupa), la Harris invece ha “dribblato” ogni presa di posizione in merito alla strategia dei democratici per evitare una maggioranza conservatrice alla Corte Suprema. Nonostante una prestazione non esattamente degna di nota, gli occhi degli osservatori restano comunque saldamente puntati sui due aspiranti VP, dato che a causa dell’età avanzata dei due principali candidati, potrebbero in effetti trovarsi ora ad inscenare le prove generali del confronto per la presidenza che potrebbe attenderli già nel 2024.

Manca poco meno di un mese al giorno nel quale l’America sarà chiamata alle urne, ma già molti americani hanno espresso la loro preferenze in molti stati attraverso il voto via posta. Ed è proprio sul voto postale che si è accesa la polemica, dato che il presidente ha minacciato più volte di non riconoscere il voto qualora non uscisse vincitore dalle urne, dal momento che considera questa modalità di voto poco sicura e facilmente oggetto di frodi. Quel che è probabile è che Donald Trump sia spaventato dall’eventualità, ormai piuttosto concreta anche se non ineluttabile, di giungere ad una sconfitta e di rimanere impresso sui libri di storia come uno dei pochi presidenti a non aver conquistato un secondo mandato. A causa della sua indifendibile gestione dell’emergenza sanitaria, il magnate newyorkese ha perso le simpatie di una discreta fetta della popolazione anziana del paese, che quattro anni fa era stata fondamentale per la sua vittoria, i continui attacchi sessisti rivolti alle donne gli hanno definitivamente alienato l’elettorato femminile, mentre buona parte della classe media è rimasta pesantemente colpita dalla recessione causata dalla pandemia e non si fida più delle soluzioni elaborate dall’amministrazione repubblicana. A rimanere a fianco del presidente uscente resta lo zoccolo duro dell’elettorato repubblicano e quella parte della popolazione rimasta catturata dal messaggio securitario del presidente, che promette “law and order” in un contesto politico funestato da sconti e violenza di strada. Si tratta però di una violenza che ha deciso di manifestarsi proprio durante una delle presidenze più divisive e controverse della storia americana, una presidenza che più di una volta ha preferito inseguire l’estremismo piuttosto che combatterlo e che non accenna a sciogliere le ambiguità legate ai legami con i gruppi di miliziani dell’alt-right che, da molto tempo, figurano come una seria minaccia per la sicurezza nazionale. Resta da vedere se l’approccio mite ma risoluto tentato da Joe Biden riuscirà ad unire un Paese scosso dagli scontri e dalla violenza estremista di due schieramenti radicali in lotta sia politicamente che militarmente.

E se non è detto che la lezione moderata del paterno Biden riuscirà a fare breccia nel cuore degli americani, quel che è certo è che i repubblicani sono pronti a mantenersi al potere ad ogni costo, utilizzando qualsiasi mezzo a loro disposizione. Data la recente scomparsa della leggendaria giudice femminista della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg, temuta da tempo dal popolo progressista per vie delle infelici ripercussioni sugli equilibri ideologici della Corte, il senato, a maggioranza repubblicana, si trova nella complicata posizione di ratificare la nomina a giudice di Amy Coney Barrett. L’elezione della giurista cattolica e ultra-conservatrice voluta da Trump porterebbe ad un radicale cambiamento negli orientamenti della corte, ormai definitivamente spostata a destra, con il possibile ribaltamento, ad esempio, della sentenza Roe v. Wade che ha garantito il diritto all’aborto negli Stati Uniti, o la bocciatura di provvedimenti come l’Affordable Care Act, meglio noto come Obamacare, che garantisce l’assistenza sanitaria a milioni di americani. Una decisione storica insomma, che andrebbe ad influire sulla politica nazionale per decenni, vista la durata a vita del mandato alla Corte Suprema, e che si qualifica come un vero e proprio “schiaffo” morale rivolto ai democratici e alla memoria di un’eroina progressista come la Ginsburg.

Forse l’immagine che abbiamo davanti è quella di un’America al bivio, davanti alla difficile scelta della strada da percorrere nei prossimi decenni. E’ vero però che, agli occhi di molti, l’immagine sembra più quella di un paese ormai prigioniero in una farsa grottesca, in uno di quegli sketch del Saturday Night Live o di un qualche show di Comedy Central, in cui recita da protagonista una nazione incamminata sulla via di un declino che, forse, potrà non essere economico o sociale, ma che senza ombra di dubbio si avverte sul piano culturale.

Pietro Borsari

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