Il paese dei (presunti) vincitori

C’è una sensazione surreale nel paese ogni volta che si giunge ad una scadenza elettorale, una tiepida tensione che trova la sua origine nella dissonanza tra i proclami di travolgente cambiamento dei partiti in campagna elettorale e l’inevitabile calma piatta che si avvertirà subito dopo.

Anche questa volta il risultato dell’election day del 20 e 21 settembre avrebbe dovuto segnare profondamente la politica italiana, consegnando definitivamente il paese alla destra sovranista o dando invece forza all’esecutivo giallo-rosso. Ciò che invece ci hanno restituito i risultati è la fotografia di uno stallo: il centrodestra prevale nelle Marche, oltre a guadagnare una grande riconferma in Liguria e Veneto, il centrosinistra invece riesce a resistere in Toscana e a riconfermarsi alla guida della Puglia e della Campania. Nessuno ha strappato una reale vittoria, tuttavia ciascuno è riuscito a trovare una ragione o due per giustificare grandi festeggiamenti nelle sedi di partito. Persino Renzi, che con la sua neonata creatura politica non è riuscito a spopolare in nessuna regione (solo in Campania l’ex premier è riuscito a riscuotere un 7% con l’aiuto dei ras delle preferenze prestati da Forza Italia).

Se è difficile identificare un vero vincitore, questo appuntamento elettorale ha evidenziato sicuramente qualche non vittoria. Nonostante gli schiamazzi di trionfo, è un riso amaro quello di Matteo Salvini, che sperava di rafforzare la sua posizione strappando la rossa Toscana al Pd e che invece, oltre a portare a casa la sconfitta della sua candidata Susanna Ceccardi, si ritrova una leadership insidiata ormai da ogni parte. Nella Lega infatti il successo plebiscitario ottenuto da Luca Zaia in Veneto ha dato nuovo slancio a quanti sognano un partito nuovamente allineato alla sensibilità delle realtà produttive del Nord, mentre nella coalizione guadagnano terreno le ambizioni di Giorgia Meloni che, grazie alla vittoria nelle Marche del suo candidato, Francesco Acquaroli, e alla costante crescita del suo partito, aspira a soppiantare l’alleato nella guida del centrodestra.

Non ha di che rallegrarsi nemmeno il Movimento 5 stelle che, pur essendosi arreso da tempo al suo inarrestabile declino, sperava di trasformare la contesa tra centrodestra e centrosinistra in un “triello” dove poter essere l’ago della bilancia; non è riuscito ad essere incisivo nemmeno nelle ex roccaforti nel mezzogiorno. Nonostante lo scarno risultato, i grillini hanno avuto modo di incassare la straordinaria vittoria al referendum costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari. Un esito importante, che fa crollare quel tabù dell’intoccabilità della carta costituzionale che già due volte negli ultimi vent’anni la politica aveva cercato, invano, di infrangere alle urne.

Chiaramente, se qualcuno si trova costretto a mascherare qualche insuccesso, altri escono da queste elezioni a testa alta, uno su tutti il partito democratico. Il principale partito del centrosinistra, ostaggio di una segreteria vuota e inconsistente, sembrava infatti condannato all’inevitabile destino di vedersi strappare la roccaforte toscana dalla Lega, oltre a dover assistere ad una débâcle in quasi ogni altra regione chiamata alle urne. Il risultato è stato tiepidamente positivo: in Toscana è arrivata la faticosa conferma del mite candidato del centrosinistra Giani, in Puglia Michele Emiliano è riuscito a scalzare Raffaele Fitto e in Campania l’annunciato plebiscito per Vincenzo De Luca è riuscito a mitigare l’attenzione rivolta alla grande riconferma di Zaia in Veneto, a questo poi si aggiunge un discreto risultato anche in molti comuni, come Trento e Cremona, dove il Pd ha guidato le coalizioni che hanno portato all’insediamento o alla riconferma di molti sindaci. Sull’onda di questa timida vittoria, il Pd si appresta finalmente a far sentire la sua voce all’interno del governo, riuscendo forse ad ottenere l’atteso smantellamento di alcuni dei provvedimenti più iniqui varati dallo scorso esecutivo, come Quota 100 e i decreti sicurezza, e ad imporre una linea di maggiore serietà su alcuni temi, come l’adesione al MES.

Non solo rose e fiori però per i democratici. Questo appuntamento elettorale infatti conferma la graduale ritirata della sinistra dalle regioni del Nord Italia, con la parziale eccezione della dorsale appenninica. La Liguria, regione storicamente rossa, si conferma saldamente nelle mani del governatore uscente Giovanni Toti che con il 56% batte l’ex giornalista del Fatto Quotidiano Ferruccio Sansa, candidato unitario del M5S e del PD, che si accontenta di un modesto 38%. In Veneto, dove la vittoria era quasi impossibile, la sinistra ottiene il 15% e riesce ad eleggere solo 8 consiglieri. Ad incidere su questo risultato è forse lo spostamento del Partito Democratico, e ormai di tutte le forze di governo, su posizioni meridionaliste, volte a costruire una coalizione elettorale di forze sociali che guardi più al pubblico impiego e agli assistiti, piuttosto che alle forze produttive del nord, al lavoro autonomo e alle partite IVA. Una sinistra quindi più vicina a personalità come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, due figure che si sono dimostrate vincenti, ma che devono buona parte del loro successo alla costruzione di una rete di consensi opaca, fatta di clientele e, talvolta, di familismo. Nel caso di Michele Emiliano poi non si possono non citare le numerose ambiguità su tanti temi cari alla sinistra che fu di governo. Si parla della questione ILVA, che il governatore ha saputo sapientemente utilizzare per farsi pubblicità ostacolando in ogni modo le soluzioni pensate dagli esecutivi del suo stesso orientamento politico, dell’opposizione al TAP, poi sconfessata, fino ai negazionismi sulla Xylella e ai numerosi tentativi di avvicinamento allo scorso esecutivo, il Conte I sovranista ed euroscettico. Tutte pagine della storia politica di un uomo che ha saputo solleticare, a tempo debito, le pulsioni assistenzialiste e antiscientifiche di una parte dell’elettorato, solitamente appannaggio dei 5 stelle, restando però nell’alveo del centrosinistra.

Ed è propio l’esempio della vittoria di Emiliano, accolta con grande gioia da un Pd che temeva la disfatta in Puglia, a restituirci l’unico vero vincitore di queste elezioni: il populismo.

Un’ideologia che ormai abbraccia ogni forza politica e che inquina da tempo ogni organo delle nostre istituzioni. Una realtà questa con la quale tutti gli schieramenti preferiscono scendere a patti piuttosto che osare coraggiosamente un confronto. Ne è un triste esempio l’altra grande sfida che si è tenuta a questo appuntamento elettorale, ovvero il referendum sul taglio dei parlamentari. La quasi totalità delle forze politiche in gioco ha scelto di arrendersi alla retorica anti casta del Movimento 5 Stelle, appoggiando il sì ad un referendum costituzionale che, con il proposito di tagliare costi e privilegi, s’è invece dimostrato un vero e proprio atto punitivo nei confronti del Parlamento. Con uno sconcertante 69% in suo favore, la riforma nei prossimi anni cambierà  il volto della rappresentanza parlamentare, depotenziando un’istituzione già ampiamente svilita da decenni di politici approssimativi e indegni del loro ruolo. A fronte di un risibile risparmio in termini di spesa, i lavori del Parlamento saranno senz’altro rallentati dal minor numero di commissioni che potranno formarsi al suo interno e molti provvedimenti importanti per il nostro futuro saranno bloccati dal peso esercitato da pochissimi eletti. Tutto questo andrà chiaramente a rafforzare il ruolo degli esecutivi che, anche se potranno essere di colore differente, avranno tutti un comune denominatore: quella volontà di accentramento del potere e di privatizzazione degli organi di rappresentanza che il Movimento 5 stelle va predicando da diversi anni. Questa non è altro che la filosofia del suo fondatore, Gianroberto Casaleggio, ribadita qualche giorno fa da Beppe Grillo a un meeting promosso dal presidente dell’Europarlamento David Sassoli dal titolo “Visioni per un nuovo mondo”, con ospite anche il guru dello sviluppo sostenibile, fermo oppositore del 5G, Gunter Pauli, recentemente assunto dal Governo italiano in qualità di consulente. Il fatto che tali concetti siano stati espressi ad un evento presieduto da una figura illustre del panorama europeo come Sassoli ci mostra con chiarezza quale “vigorosa” risposta attende il populismo da parte delle nostre istituzioni

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