La poesia giustifica i mezzi: Intervista con i Modena City Rimers

 

Cecilia Baraldi, Giulia Fancinelli, Andrea Garganese, Francesco Malavasi, Francesca Paolucci, Samuele Anam Tosi, Francesco Tremazzi, Angelo Valente.

Sono loro i membri dei Modena City Rimers, il primo collettivo poetico di Modena: giovani artisti uniti dal progetto di diffondere la poesia in modi nuovi e spregiudicati, nonchè dall’impegno nell’organizzare eventi culturali in cui ciò diventi possibile.

Perchè questo nome, “Modena City Rimers”?

Francesco M: Era il titolo di un reading da me organizzato qui a Modena, dal quale poi nacque l’idea del collettivo: infatti la serata ebbe un tale successo che pensai di replicare, cercando altre persone disposte ad unire le forze per organizzare insieme altri eventi di poesia performativa. La grafia è stata problematica: io volevo “rimers”, ma l’inglese moderno utilizza lo spelling “rhymers”… Però poi mi sono detto: se lo ha fatto Coleridge nel titolo del suo The Rime of the Ancient Mariner, possiamo benissimo farlo anche noi!

E’ proprio il caso di dire: “licenza poetica”… Non fosse che voi non vi siete definiti poeti, bensì “rimatori”: poetanti, quindi, se non proprio imbrattacarte. Un moto d’umiltà?

Andrea: Non ci avevamo mai pensato in questi termini, ma di certo un atteggiamento umile da parte di ciascuno è una condizione fondamentale del nostro progetto. In fondo non ci staremmo così simpatici se non fossimo capaci di autocritica, “ego free”, capaci di fare compromessi ai fini della buona riuscita di ogni evento. Ben venga, quindi, il ritenerci “rimatori”: il problema degli ego smisurati è un problema che innegabilmente affligge la poesia contemporanea, ma noi cerchiamo di frenarci e non cadere in questa trappola.

Adesso però vi chiedo di racimolare tutto l’ego che avete per rispondere a una domanda classica che si fa ai poeti, una di quelle fatidiche, con la D maiuscola:   Che cos’è la poesia?

Francesco T: Parto col dire che personalmente non condivido l’idea di Dante che la poesia debba parlare solo di cose nobili ed elevate; però anche io credo che ci sia una sostanziale differenza nel modo in cui si fa prosa da quello in cui si fa poesia. Attualmente la metrica non è più quella tradizionale, quella classica (ogni tanto ci provo anch’io a comporre un alessandrino, con fortune alterne) ma comunque il ritmo, la musicalità sono ancora il fondamento della poesia.

Andrea: Anche perchè, essendo la poesia che noi facciamo performativa, orale, si emancipa fortemente dallo scritto. C’è uno stacco, dovuto al fatto che la nostra poesia diventa viva con la voce. Al di là del computo delle sillabe sulla carta, è importante essere capaci durante la performance di modulare i versi, facendo emergere il ritmo.

Francesco T: … Quindi se già il testo scritto è metricamente e ritmicamente corretto, beh, riesce meglio anche la performance.

Francesco M: Se posso aggiungere una cosa: nell’ambito poesia performativa ci sono artisti, come ad esempio Matteo di Genova, che sfruttano persino il rap e la beatbox nei propri spettacoli, unendoli alla poesia. Potremmo disquisire a lungo sulla questione se si tratti o meno di poesia, ma a mio avviso sarebbe una cosa inutile: la poesia si è evoluta così e basta. Poi non sono molto d’accordo con quello che Francesco T. ha detto prima… Io sono d’estrazione montaliana: credo che la poesia per sopravvivere oggi debba assumere nuove forme, e debba assolutamente farsi prosa.

Samuele: In quello che facciamo noi credo ci sia, nel piccolo, un tentativo di innovazione. La nostra poesia non è più soltanto (o soprattutto) sul foglio; per questo non basta più la bravura dal punto di vista della metrica, ma è necessaria una certa capacità “teatrale”, bisogna essere anche un po’ performer. Voglio dire, io mi sono guardato i video di Montale che recita le sue poesie… è una rottura di pa**e! Almeno per il sentire contemporaneo. L’arte, la letteratura, per essere comprensibili devono avere un minimo di Zeitgeist. Fermarsi a ciò che si è imparato a scuola o a ciò che accademicamente si considera poesia significa correre il rischio di non portare a termine quella che è l’altra metà del lavoro dell’artista: mandare un messaggio a qualcuno.

Andrea: Il fine non è starsene nel proprio spazio, ma portare fuori e comunicare qualsiasi cosa si abbia dentro. Io che scrivo ti voglio dire qualcosa: e quindi devo cercare di arrivare a te in qualsiasi modo, utilizzando ogni espediente comunicativo a mia disposizione. Questo è il fine della poesia, ed ogni mezzo è lecito per realizzarlo.

Angelo: Io penso che tra la poesia “vecchio stampo” e quella contemporanea bene o male ci sia un rapporto di continuità; è vero però che col tempo il genere poetico ha assunto diramazioni più ampie. In un certo senso la poesia di adesso, quella performativa, ritmata, con un certo tipo di espressività, possiamo dire che risponda a una certa esigenza sociale. Mi spiego: il Poetry Slam è nato in America, contemporaneamente al fenomeno hip hop, che include la disciplina del rap. Sono fenomeni diversi, che però si sono sviluppati in parallelo, e adottano certe caratteristiche comuni, come un forte senso del ritmo, o anche la punchline, ossia l’immagine forte che arriva all’improvviso, alla fine di una strofa o di un verso.

A proposito di poesia “vecchio stampo”, un piccolo sondaggio: qual è il vostro poeta della tradizione preferito?

Francesca: Leopardi, certamente.

Samuele: Baudelaire, Rimbaud, Majakovskij.

Francesco M: Giorgio Caproni.

Andrea: Io in realtà quando ho iniziato a scrivere non leggevo molta poesia. C’erano degli autori di prosa che mi piacevano molto, come Erri de Luca. Di lui la cosa che colpiva molto era la cura, la selezione di parole evidente nella sua scrittura. C’era la ricerca di parole potenti incastonate in un contorno soffice, a creare un contrasto. Questa era una cosa che mi catturava, e in seguito mi ha portato a leggere più poesia, anche di autori classici.

Adesso non saprei dire qual è il mio poeta preferito, però posso dire le cose che mi piacciono della poesia… La sintesi di cui solo la poesia è capace, ad esempio. Ricollegandomi alla domanda prima, “Cos’è la poesia?”, io risponderei con una citazione che credo colga nel segno: “Scrivere pensieri lunghi in frasi brevi”.

Francesco T: I miei poeti e scrittori preferiti dipendono dal periodo; li ricerco anche in base a quello che sto scrivendo al momento. Ad esempio ultimamente sto provando a scrivere dei racconti, e quindi leggo un sacco di racconti! Se dovessi fare il nome di un singolo un poeta, forse direi Baudelaire; ultimamente però sto leggendo molto anche Pierluigi Cappello.

Nello scorso numero dello Strillone abbiamo raccontato il fenomeno dell’Instapoetry, e più in generale di come la poesia stia godendo di una nuova, insperata popolarità fra i giovanissimi proprio grazie ai social. Voi Rimers invece sembrate incarnare la tendenza opposta: puntate quasi tutto sull’evento dal vivo, sulla performance a stretto contatto col pubblico. Perchè?

Andrea: E’ vero, noi usiamo i social principalmente per segnalare l’evento e per farci pubblicità, ma di solito non postiamo le nostre poesie su Internet: vogliamo che la gente venga a conoscerci dal vivo. Solo venendo ad un a gara di slam o ad un nostro reading una persona può capire veramente quello che facciamo. I social sono un buon mezzo per darsi visibilità, ma la parte della performance per noi è l’essenza, l’unica parte reale che davvero non può mancare.

Angelo: Noi come collettivo abbiamo la finalità principale di creare dei ponti, cioè dei momenti di socialità più intensa. Quello che ci ha contraddistinto, anche rispetto ai poeti locali, è che ci siamo staccati da quella mentalità un po’ individualista, da cameretta, del poeta-tipo che, se si esibisce in pubblico, lo fa comunque in qualità di solista. Sotto questo aspetto abbiamo fatto una cosa abbastanza innovativa, cioè abbiamo creato una possibilità nuova di diffondere poesia, con una struttura diversa. L’essenza che si sta perdendo e che noi vogliamo recuperare è anche quella propria di quei momenti di socialità e di cultura che vivevano gli artisti e gli intellettuali di una volta, ritrovandosi nei caffè a scambiarsi idee, discutere, litigare perfino.

Francesco M: Io vorrei dire qualcosa anche sulla funzione sociale che può avere l’evento poetico. L’abbiamo notato nel corso dei vari eventi, dei quali l’ultimo è stato all’Abate Road, in occasione del Poesia Festival. Inizialmente quell’evento avremmo dovuto farlo altrove; quando il direttore mi disse che invece l’avremmo fatto all’Abate Road, uno spazio nei pressi della stazione dei treni, ammetto di avere storto un po’ il naso. Non ero convinto che un posto in quel contesto potesse adattarsi ad un evento come il Poesia Festival, che ormai è quasi un’istituzione locale e anche di un certo livello. Alla fine però ci siamo organizzati e l’evento si è tenuto lì, e vedere che siamo arrivati a circa 160 ingressi è un fatto che mi ha colpito molto: mi ha colpito che così tante persone si siano recate in un posto, pur noto alla cronaca per vicende di spaccio e di malavita, per passare una serata ad ascoltare le nostre poesie.

Francesco T: E questo fatto smonta la credenza comune di cui tanta gente è convinta, cioè che la cultura si possa fare solo e sempre in un “tempio”, in un luogo ufficiale consacrato esclusivamente a tale scopo. E’ questa la forza e la funzione appunto sociale che ha il nostro portare la poesia al bar. Abbiamo dimostrato che anche di fianco alla stazione si può fare poesia.

Andrea: Una volta abbiamo organizzato uno slam, una gara di poesia, in un bar di montagna a Serra. Era una giornata piovosa. Quando siamo arrivati c’erano forse sette persone venute appositamente per l’evento, mentre tutti gli altri erano capitati lì per puro caso. Come si può immaginare, un bar a Serra non è un luogo molto trafficato. Però, per dire, in quella situazione è successo che la signora che faceva la barista, terminato lo slam, ci ha chiesto se poteva leggere qualcosa anche lei… Commossa, aveva scritto una poesia in quel momento lì, per noi, su quanto fosse bello che delle persone fossero disposte a metterci del proprio per animare quel luogo, per creare una comunità. Una signora che avrà avuto sessant’anni, ma l’ha fatto. Ecco, quello è stato per noi il successo, la piena riuscita del nostro intento.

Francesco T: In un bar di montagna ci vanno solo quelli che poi ci rimangono fino alla morte, finchè non piantano la testa sul bancone… così si dice, no? Ecco, in realtà quelli che quel giorno in quel bar c’erano, ed avrebbero potuto benissimo piantare la testa sul bancone, beh, non l’hanno fatto.

Non l’hanno fatto ed hanno ascoltato.

 

 

Alcune poesie dei Modena City Rimers si potranno leggere sul sito del nostro giornale insieme a quest’intervista, per la quale li ringraziamo. Ovviamente però, per poter apprezzare appieno il talento e la passione di questi artisti, il consiglio è quello di partecipare ai prossimi eventi organizzati dal collettivo, che verranno presto segnalati sulla loro pagina Facebook.

Lucia Bezzetto

 

Francesca Paolucci

ARRIVA IL GIORNO IMMINENTE

Arriva il giorno imminente

attraverso un sorriso forzato che da sé parla

e camminiamo distratti e malinconici tra la gente

cercando sempre e comunque di accontentarla,

ma è l’indole nostra ad essere negativa,

a smettere invano di sperare

e la paura si presenta aggressiva

mentre sottrae la capacità di parlare.

La stagione novella busserà un poco alle porte

e noi le apriremo diffidenti

e affideremo le nostre gioie alla sorte.

Terrore abbiamo di ascoltare

e dalla tensione stringeremo i denti

fino al momento in cui troveremo il coraggio di avanzare.

 

 

Francesco Tremazzi

UN MATTINO DI RABBIA

 

C’è nella soffusa splendente nebbia

una luce sporca che illumina

un mesto Cristo scuro;

mani in-col-[(le-ra)/(la-te)]

pregando crepano.

E si spacca il cuore

bestemmiando, imprecando

e sobbalzando strappa

via il fiato.

Guardo il cielo rompendo

nubi con urla e

muta rabbia a sorda vita:

– ‘FANCULO! QUI SI CREPA! –

Tremo percuotendo terra

di piaghe fitta e secca

e vuota-spoglia-spaventapasseri.

Passanti a passi rotti fissano

alla gogna il mio nonstare.

 

Andrea Garganese 

Sigaro thailandese

secchiate di giungla arrotolata in bocca

gira e senti le tigri dentro

ti ci riempi le guance

prima di sputarle fuori

a scimmie di fumo

per le strade del cielo.

scrivere una poesia

su un sigaro thailandese…

l’inizio non è male

puzza di scommessa

come questo sigaro thailandese

l’inizio

poi?

superata la metà

e alle tigri ti ci sei abituato

e la giungla appassisce

e ti ci ritrovi spoglio

e

come vorrei

trovarti spoglia

con le tigri dentro

la giungla sulle labbra

arrotolami

infilami in bocca

consumami dai piedi

fammi vedere

pezzi rossi di me

che piano cadono in cenere

lo sai che con la cenere si può fare il sapone??

scommetto non lo sapevi

lei mi guarda ma sei scemo

e svanisce

nel fumo

rimango solo

me lo tengo in mano

un sigaro thailandese

fantasmi

non so come

entri sempre nelle mie notti

senza chiave

imbarchi da una stazione a me segreta

senza parole

senza biglietto

vagando

nel treno dei sogni

c’è sempre un vagone

tra i mille

in uno

c’è la sorpresa di te

il tuo profilo

girato in un tango

(a colpi di tacco

tra un addio e un’accoglienza)

tra un addio e un’accoglienza

lascia a me l’iniziativa

oggi  a pranzo ho mangiato una bistecca

col rossino che colava nel piatto

mettevo bocconi troppo grandi

per sforzare i denti al sugo e

in quel muro di carne

i denti s’incontravano

senza smettere di spingere

l’uno nell’altro

a fare male

non so come

entri sempre nelle mie notti

senza chiave

imbarchi da una stazione a me segreta

senza parole

senza biglietto

vagando

nel treno dei miei giorni

c’è sempre un mattino

tra i mille

in uno

c’è il morso di te

Samuele Tosi 

Dove non importa.

Seduto, dove non importa

 aspetto spiova anche questa volta

 e vi guardo camminare,

 come non avessi altro da fare.

 Seduto, dove non importa,

 guardo una città a misura d’uomo

 e non ricordo

 se quell’uomo è già arrivato,

 o sta tardando:

 c’è tanto grigio,

 a perdita d’occhio, amico mio,

 tanto cielo proibito,

 muri aguzzi,

 e mani fredde,

 sogni segreti, e io,

 seduto dove non importa,

 aspetto anche questa volta

 e mi specchio in una vetrina blu.

 Vorrei saperti dire

 “È tempo di andare!

 Salpare!

 Vendicare tutto quello che hanno strappato,

 e ucciso,

 e violentato!”

 ma,

 seduto dove non importa,

 aspetto anche questa volta

 un segno in più:

 un segreto perduto

 o un’ultima magia da giocare,

 ma qui, dove non importa,

 se c’è la giusta luce

 mare e cielo mangiano l’orizzonte,

 e resta solo una barca,

 scafo piccolo,

 vela alta,

 sospesa su un foglio di carta; e io,

 seduto dove non importa,

 ricordo d’improvviso che

 non c’è resina afghana,

 neve tropicale

 o bulbo di papavero

 che sappia sostituire gli occhi tuoi

dorati e belli,

 d’infinito pieni

 e dolcemente ribelli.”

Lei

Ti ho sognata,

 eri vestita come Lei

ne ‘il portiere di notte’,

col rosso furente dei tuoi capelli

racchiusi sotto il cappello da ufficiale.

Mentre la camicia lasciava

pian piano

che fosse la tua pelle

a vedersela con le bretelle

 Sorridevi,

 gettavi il cappello e lì,

 in fondo ai tuoi riccioli

 sapevo avrei vissuto tutti i miei desideri più sdruccioli.

 Ci avrebbero trovati nudi,

 nella vasca ormai svuotata,

 mentre Parigi, sul fondo, in silenzio

 bruciava.

Francesco Malavasi

VIVERE QUA
Una cosa che in molti non sanno
la nebbia non è immobile –
se passa un treno
con la nebbia sui binari
se ne porta via un po’
con sè. Così,
nella corrente delle cose mute,
un po’ te ne vai schiacciata da un treno
e un po’
resti con me.

Cecilia Baraldi

D I C I

cose assurde che forse io non capisco

però mi fanno ridere e

pensi

che ci siano sempre i cattivi mentre

credi

che sbagli io a pensare

che non ci siano mai e

fai

giri intorno alle cose e

sfiori

per paura di rompere e spesso

taci

cose che dentro di te soffiano

come Bora e

Sei

la persona più amabile del mondo

perché profumi di interi campi

di camomilla al sole

e d’estate hai gli occhi miele

e non hai mai

nessunissima voglia di

fare male

Se ho una finestra nel cuore

me la immagino con te sotto,

in mano

un girasole.

Giulia Fancinelli a.k.a. Timido Dinamitardo 

10 all’amore

<Come mai non riesco più a scrivere d’amore?

Mi manca il sentimento, le parole, la passione?

Eppure è ancora nel torace il mio vecchio cuore.

Già visto e già consultato per ogni relazione

che ho consumato.

E adesso che corro da solo

non posso più scrivere

proprio perché non riempio le mie lenzuola?

L’amore allora è solo partecipazione, travaglio,

subbuglio, pathos e disperazione?

Non posso più scrivere d’amore

se bevo caffè amaro leggendo il sole 24h?

<Ebbene sì, cara fanciulla,

l’amore non può essere analizzato con la mente tranquilla.

Quell’amore che urla

che divora, che strilla.

<E se volessi scrivere di un amore

piatto e abitudinario amore

Ne varrebbe la pena di poetare

su un amore vuoto

sciatto e per niente straordinario?

<Non credo proprio mia cara dolcezza.

L’amore è contatto, violenza, ripresa.

Un rapporto intenso di energico sconvolgimento

<E io che sono in un placido momento,

devo togliere alla mia produzione

un così classico argomento?

<Ma come, mia cara scolaretta,

non ti sei accorta che distratta e contorta

hai scritto anche tu

un fiume di parole

usando 10 volte

il termine: amore?

 

Angelo Valente

PASTA E VONGOLE

Il mondo vocifera;

Corri e prendi fiato

Brancolando verso l’alba

Per incartare il cielo

Lì, dove un dorso ed un piatto

Vantano amore di sale,

Dai più voce al fondo,

Dove una tira l’altra

E l’orizzonte razzola

Sopra ogni respiro

Naviga!

Naviga!

Naviga,

Sopra ogni stella e

Naviga!

Naviga!

Naviga!

Via da ogni cella

Naviga,

Finché la schiuma

Spinge mamma a chiamare

Ed un pugno di gusci

Vale solo un altro tuffo.

In alto mare.

ILLUSIONI

Meriti di più della verità:

una sinfonia incompiuta

nel bisogno

di non esistere.

 

 

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