Taglio dei parlamentari: un viaggio nella riforma

 

Il 20 settembre (dalle 7 alle 23) e il 21 settembre (dalle 7 alle 15) gli elettori saranno chiamati ad esprimere il loro parere sulla riforma costituzionale che reca come oggetto il taglio di 345 parlamentari. Così facendo la Camera dei Deputati passerà da 630 a 400 deputati, mentre il Senato da 315 a 200 senatori (esclusi 5 senatori a vita). Il referendum non ha bisogno di un quorum e, se la maggioranza degli elettori voterà no, la riforma verrà bocciata e il numero dei parlamentari rimarrà quello attuale. Nel caso di vittoria del sì, nel giro di al massimo un mese ci sarà la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale e dopo 15 giorni dalla pubblicazione, le legge costituzionale sarà effettiva. Il disegno di legge nacque il 7 febbraio 2019 e fu approvato definitivamente dopo due deliberazioni in entrambi i rami del parlamento l’8 ottobre 2019, 4 giorni dopo fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e da quel momento partirono i tre mesi di tempo affinché un quinto dei membri di una Camera o 500 000 elettori o cinque Consigli regionali potessero domandare che si fosse proceduto al referendum popolare. Il Partito Radicale provò, fin da subito, a raccogliere le firme ma dopo tre mesi annunciarono di aver raccolto in tutta Italia solo 669 firme, a fronte delle 500 000 firme richieste e quindi il 10 gennaio 2020, 71 senatori depositano presso la Corte di Cassazione la richiesta di referendum costituzionale, che dopo un rinvio a causa della pandemia, è stato fissato nei giorni precedentemente citati. Il dibattito sul referendum, tuttavia, si è intensificato soprattutto negli ultimi mesi e la nostra redazione si è prefissata l’obiettivo di ospitare qualsiasi commento a riguardo della riforma, che riporteremo di seguito.

 

Perché No di Alessandro Stefani

 

La riforma costituzionale targata (è bene ricordarlo) Movimento 5 Stelle – Lega, sulla quale saremo chiamati ad esprimerci il 20 e 21 settembre, tradisce la disarmante immaturità di buona parte della politica italiana, perdutasi ormai da decenni nell’oblìo del bieco populismo.

Il sostegno politico al “Sì” viene rafforzato da argomenti puerili e poco attenti agli equilibri istituzionali, argomenti che tentano di giustificare, attraverso il semplicismo e la demagogia, una manovra tanto carica di vuota retorica quanto gravida di infelici risvolti pratici.

Il cosiddetto “taglio dei parlamentari” non permetterà alcun miglioramento sul piano dell’efficienza amministrativa, diminuendo, in entrambe le camere, i membri delle commissioni permanenti e ottenendo come unico risultato un rallentamento dei diversi iter di discussione e approvazione legislativa.

La distanza fra cittadini e complesso politico verrà acuita. I partiti selezioneranno solamente quelle personalità in grado di raccogliere un forte consenso, senza curarsi della vicinanza o meno dei candidati rispetto alle realtà territoriali in cui saranno presentati. 

La manovra non risolve il problema dell’errata allocazione della spesa pubblica, ottenendo un risparmio netto di circa cinquanta milioni annui, a fronte del mezzo miliardo millantato dalle fonti grilline.

Ognuna di queste informazioni sottolinea l’importanza di definire in modo chiaro gli obiettivi politici. Se il target principale è quello di un efficientamento dell’organo rappresentativo, occorre ripensare in modo completo al funzionamento del Parlamento, superando il bicameralismo perfetto (tramite una riforma in cui troverebbe di certo spazio anche lo stesso taglio dei parlamentari) e discutendo del ruolo delle regioni, che gli argomenti a sostegno del “Sì” dipingono, a torto, come realtà concorrenti o addirittura facenti parte della rappresentanza parlamentare, sottolineando in modo errato il peso rappresentativo nazionale di queste ultime e dando l’idea che esse prendano parte pienamente alla produzione legislativa nazionale.

Se l’obiettivo risiede nel risparmio, occorre rimodulare la spesa pubblica, tagliando non linearmente i costi dello Stato, premiando le amministrazioni virtuose e limitando le spese di quelle sperperatrici (è consigliata la lettura de “La lista della spesa” di Carlo Cottarelli). Si pensi alla possibile riduzione degli stipendi dei parlamentari, composti da stipendio netto, diaria e rimborsi spese, nonché alla possibile riduzione dei fin troppi addetti ai lavori nei ministeri e negli enti pubblici, che ricoprono posizioni oramai divenute obsolete. Si pensi all’aggregazione, dove possibile, della domanda per l’acquisto dei beni e dei servizi per i dipendenti pubblici e le strutture stesse; si consideri inoltre di alienare le cosiddette aziende di Stato (MPS al 68% di proprietà del MEF, Invimit 100% di proprietà del MEF, Sogei 100% di proprietà del MEF ecc. ecc.) e di superare, finalmente, la malsana idea dello Stato imprenditore. 

Invero è errato giudicare come banale superficialità e rinuncia alla riflessione l’ottimismo, comprensibile dopo il “No” amaro alla riforma “Renzi-Boschi” del 2016, di chi sostiene il “Sì” basandosi sull’idea che interpreta un’eventuale approvazione popolare della riforma come un piccolo passo verso un cambiamento più ampio. 

Malgrado ciò, una domanda sorge spontanea. Perché non proporre, ora, una riforma ampia in grado di abbracciare i punti elencati in alcune delle righe precedenti, invece di attendere un indefinito ed indefinibile domani? 

Le differenti risposte a tale quesito si esauriscono molto in fretta: mancanza di capacità, paura della risposta cittadina ad una riforma così complessa e audace da risultare avventata agli occhi dell’elettorato, o una commistione fra le due. In ogni caso la vittoria del “Sì” al quesito referendario disattende le speranze del ragionevole fronte degli ottimisti.

La legge costituzionale “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” è una pura richiesta di legittimità da parte di tutte quelle forze politiche che sono in grado solamente di appellarsi allo stomaco del popolo. La riformina giallo – verde (sfumata di rosso) è l’opera maestra populista: vuota, impregnata di qualunquismo, catalizzata dal malcontento e sostenuta in modo superficiale da chi ha paura di non afferrare la delicata complessità di uno Stato.

 

Riforma costituzionale, tra il sì e il no di Andrea D’Albenzio 

Il mio intervento non avrà l’intento di sostenere né l’uno né l’altro comitato quanto quello di fornire ai lettori un quadro chiaro e oggettivo di cosa cambierà in seguito alla riforma e offrendo chiaramente degli spunti di riflessione. Nei fatti, vorrei avere tanto le certezze di entrambi gli schieramenti, ma non credo di essere portatore di una verità assoluta e né tantomeno che gli elettori di fronte a dati precisi ed oggettivi non sappiano autonomamente trovare la loro strada. Venendo al dunque è piuttosto chiaro che gli effetti diretti correlati alla riduzione di 345 parlamentari sono, da un lato, un risparmio per le casse dello stato, dall’altro una riduzione della rappresentanza. Altrettanto chiara è distorsione degli stessi, messa a punto sia da parte del fronte del sì e sia da parte del fronte del no. Vi darò un paio di esempi:

  • I costi della politica si ridurranno di circa 57 milioni l’anno. Un dato oggettivo e chiaro per tutti ma che per il fronte del no sono poco più di un caffè a cittadino l’anno, mentre per il fronte del si sono 1 miliardo di euro in 2 legislature (cioè 10 anni). Il risparmio per il sì, inoltre, è calcolato arrotondando in eccesso il costo lordo di ogni parlamentare. 
  • Il punto cruciale riguarda sicuramente la riduzione della rappresentanza che per il no diventa un danno enorme per la democrazia, per il sì un modo per rendere più efficiente il parlamento. Inoltre paragonando, con gli altri stati europei, il numero dei rappresentati in relazione alla popolazione, per il fronte del no la riforma porterebbe l’Italia ad essere la meno rappresentata in rapporto al numero degli abitanti, mentre per il si il rapporto sarebbe in linea con gli altri stati. Le differenze nascono dal fatto che il fronte del no va a confrontare esclusivamente i deputati italiani con i deputati di altri stati, dimenticando, però, che in UE più della metà degli stati ha una sola camera e gli unici con un sistema di bicameralismo paritario sono l’Italia e la Romania. Mentre per il fronte del sì, bisogna sommare ai deputati i senatori, sostenendo, infatti, che il Senato e la Camera dei Deputati vanno considerati come entità uniche avendo gli stessi poteri che hanno le uniche camere presenti in molti degli stati europei. Consiglio ai nostri lettori l’analisi accurata svolta dal sito pagella politica proprio su questo tema al seguente link https://pagellapolitica.it/dichiarazioni/8368/il-taglio-dei-parlamentari-riduce-la-rappresentanza-un-confronto-europeo e di cui ne riporto le conclusioni. “Se si considera il rapporto tra parlamentari eletti a suffragio universale dal popolo, che devono approvare le leggi e dare la propria fiducia al governo, e abitanti, l’Italia – anche dopo il taglio dei parlamentari – non sarebbe in una posizione anomala nella Ue ma, anzi, si troverebbe in una condizione paragonabile a quella degli altri grandi Paesi europei.” Per quanto riguarda questo aspetto la questione rimane, comunque, alquanto complicata. Il dibattito sul numero dei parlamentari fu ampio già nel 1948 tra i membri della costituente. Se a fronte di vari esponenti che volevano un elevato numero di rappresentanti come Togliatti o Fuschini, per non diminuire l’autorità del parlamento e per rendere l’eletto più vicino all’elettore, ce ne erano altrettanti che non la pensavano in questo modo. Tra questi si ricordano padri costituenti come Conti: “Riguardo al numero dei componenti la prima Camera, ritiene che tanto meglio sarà quanto più esso sarà ridotto: l’affollamento non costituisce alcun vantaggio. (…)”  e ancor più il futuro presidente della Repubblica Einaudi: “Einaudi è d’accordo con l’onorevole Conti sulla opportunità di ridurre il numero dei membri, sia della prima Camera che della seconda, anche per ragioni, che crede evidenti, di tecnica legislativa. Difatti, quanto più è grande il numero dei componenti un’Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all’opera legislativa che le è demandata.” Alla fine prevalse l’idea che si necessitava di un numero di rappresentanti pari a 1 Deputato ogni 80 mila abitanti e 1 senatore ogni 200 mila abitanti. Le cose, tuttavia, cambiarono relativamente subito e nel 1963 il parlamento fece sì che il numero dei parlamentari divenne fisso a 630 deputati e 315 senatori e non più in rapporto alla popolazione. In altre parole senza quella riforma, oggi, avremmo 750 deputati e 300 senatori. A tutto questo si aggiungono aspetti non di poco conto e cioè che dal 1948 c’è stata una sempre maggiore decentralizzazione che ha portato a una minore incisività del parlamento su alcuni aspetti, aumentando i poteri di quella che è la rappresentanza “locale” (in primis delle regioni, tra l’altro anche aumentate di numero) ed “internazionale” (tramite la nascita del parlamento europeo con i suoi rappresentanti e le sue tante funzioni). Proprio alla luce di tutto ciò che non credo esista un valore assoluto di parlamentari al di sotto del quale o oltre il quale non andare. Certo, chiari sono gli estremi, di in parlamento in cui ci sarebbero 60 milioni di persone o un’unica persona, ipotesi che tutti escludiamo. Ma la valutazione sull’adeguatezza o meno di 945 parlamentari non può che essere soggettiva e quindi sta all’elettore decidere se una sua riduzione è in linea con gli eventi che si sono succeduti nel tempo o, eventualmente, in virtù di una maggiore rappresentanza è necessaria una raccolta firme per aumentarne il numero o, in conclusione, 945 è proprio quel valore assoluto (per quell’elettore) oltre il quale o al di sotto del quale non spingersi.

Personalmente ritengo questa riforma, più una riformetta, ricalcando il pensiero del noto filosofo D’Arcais. Riformetta perché resta un provvedimento di bandiera con dei risparmi che valuteranno gli elettori, riformetta perché non cambia il funzionamento del parlamento e non credo onestamente che mini alla democrazia. La realtà è che la vera legge per cui i tanti comitati per i sì e il no debbano, a mio parere, battersi è quella elettorale. Perché la tanto decantata rappresentanza si infrange, in ogni caso, sulla mancanza di collegi uninominali puri che realmente legano il rappresentante al territorio o più semplicemente sull’impossibilità di esprimere la propria preferenza sulla scheda elettorale da circa 26 anni, relegando ai partiti la scelta degli aspiranti parlamentari sia che essi siano 945 sia che essi siano 600.

 

Perchè si

 

“Occorre partire dalla drastica riduzione del numero dei parlamentari: 400 deputati e 200 senatori”. 

Con queste parole, incastonate nel contratto di governo gialloverde ormai più di due anni fa, nasceva nel cantiere del Conte I il progetto della riforma costituzionale che fra pochi giorni i cittadini italiani saranno chiamati a consacrare o disconoscere con un referendum confermativo. 

I detrattori hanno preso a chiamarla “riformetta”, “riformina”: nomignoli e diminutivi che integrano un goffo quanto inefficace tentativo di stigmatizzare il carattere puntuale di questa proposta, la quale è perché ab initio intendeva essere, appunto, “chirurgica”. Un colpo di bisturi netto e inequivocabile – e proprio per questo adatta ad essere eventualmente sottoposta al giudizio popolare. Non solo: forse è stata proprio l’agilità di questa piccola scialuppa che le ha consentito di superare le tempeste che agitano, invariabilmente, il mare della politica; un mare nel quale le navi più sono pesanti più rischiano di affondare (fa da monito non trascurabile il naufragio Renzi del 2016). 

Dopo tre delle quattro votazioni richieste dall’articolo 138, il testo di legge “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari “ ha infatti varcato lo stretto della crisi agostana, approdando indenne al programma del governo Conte bis . 

Il nuovo alleato si è limitato a esigere come dazio la promessa di“avviare un percorso di riforma, quanto più possibile condiviso in sede parlamentare, del sistema elettorale”. Nessuna impegno, dunque, circa l’approvazione di una nuova legge elettorale prima del referendum; eppure, in mancanza di questa, c’è anche chi si finge sorpreso, grida allo scandalo e prova a rimangiarsi la parola data.

 

L’occasione, invece, andrebbe festeggiata. Questa “riformina”, intrepida barchetta in preda alle correnti, ha quasi terminato il suo viaggio, che a ben vedere può farsi cominciare ben prima del maggio 2018: nel dna di questa riforma si rintracciano in realtà le linee di tante, più risalenti riforme, sempre fallite nella storia della Repubblica.

Prima di esprimere il proprio voto, ogni cittadino farebbe bene a squadrarla per bene, questa scialuppa di salvataggio. Ciascuno dovrebbe leggerla, questa legge costituzionale di cui solo un mese fa non parlava quasi nessuno… 

 

Se non altro perché è letteralmente un formato A4: la riforma costituzionale si compone infatti di soli quattro sintetici articoli.

Se l’ultimo tratta della decorrenza delle disposizioni,  il terzo chiarisce un’ambiguità storica del testo costituzionale: il numero di senatori a vita nominati in un dato momento dal Presidente della Repubblica non può essere maggiore di 5 (peraltro non si tratta che della pacifica codificazione di una prassi consolidata).

 

Gli articoli controversi sono i primi due, quelli che apportano modifiche agli articoli 56 e 57 della Costituzione:

 

Art. 1.

(Numero dei deputati)

  1. All’articolo 56 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. a) al secondo comma, la parola: «seicentotrenta» è sostituita dalla seguente: «quattrocento» e la parola: «dodici» è sostituita dalla seguente: «otto»;
  3. b) al quarto comma, la parola: «seicentodiciotto» è sostituita dalla seguente: «trecentonovantadue».

Art. 2.

(Numero dei senatori)

  1. All’articolo 57 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. a) al secondo comma, la parola: «trecentoquindici» è sostituita dalla seguente: «duecento» e la parola: «sei» è sostituita dalla seguente: «quattro»;
  3. b) al terzo comma, dopo la parola: «Regione» sono inserite le seguenti: «o Provincia autonoma» e la parola: «sette» è sostituita dalla seguente: «tre»;
  4. c) il quarto comma è sostituito dal seguente:

«La ripartizione dei seggi tra le Regioni o le Province autonome, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla loro popolazione, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti».

 

E’ tutto qui. Questo è quello che accadrà, se vincerà il sì al referendum del 20-21 settembre. Non una catastrofe, non una rivoluzione. La politica proietta ombre e prospetta pericoli spesso inesistenti, ma quando si tratta della Costituzione forse andrebbe posto un freno alla speculazione di parte. 

Si dice che questo piccolo, incompleto ma risoluto intervento non sia che il primo passo, preparatore di nuove riforme…o di peggiori disastri. Lo dicono entrambi gli schieramenti, gli uni per riattizzare il consenso, gli altri predicendo la fine della democrazia rappresentativa. 

In realtà, è la fallacia del pendio scivoloso: questo referendum consolida un cambiamento, ma non garantisce certo il successo di altre proposte semplicemente per omogeneità di fonte politica. Ci sarà sempre una battaglia, che per il bene superiore della Repubblica andrebbe disputata ogni volta nel merito, perlomeno quando si tratta di questioni di livello costituzionale.

L’alternativa è il sostanziale immobilismo e l’irriformabilità delle istituzioni – questi sì, argomenti invidiabili serviti su un piatto d’argento alle fauci dell’antipolitica.

 

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