Salario minimo, universal basic income, sussidi ai salari: le varie misure per combattere la disuguaglianza

Costituzione, articolo 4:

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

 

Nel corso della storia umana molte società hanno avvertito il bisogno di aiutare i più sfortunati tra i loro membri. Questo articolo si propone di illustrare i principali strumenti teorizzati dagli economisti e utilizzati dai governi a questo fine, rendendo conto dei loro pregi e difetti.

Che tipo di disuguaglianza?

Prima di iniziare è però necessario capire esattamente di che tipo di disuguaglianza stiamo parlando. Quando si parla di disuguaglianza nei dibattiti pubblici di solito ci si riferisce a due diversi, ma collegati, concetti di disuguaglianza: disuguaglianza di reddito e disuguaglianza di ricchezza, intesa come patrimonio.

Ma è importante comprendere che, per quanto semplici ed intuitivi tali concetti di disuguaglianza possano sembrare, sono ben lontani dall’essere esaustivi. Prima di tutto è importante capire che non è nemmeno ovvio quale dovrebbe essere il livello a cui viene misurata la disuguaglianza, poiché il reddito di una persona con due figli non può essere paragonato a quello di un’altra che non ha obblighi famigliari. Quindi non è chiaro quale criterio usare tra il reddito famigliare e quello individuale. Uno studente con una famiglia alle spalle ad aiutarlo non è nella stessa situazione di uno effettivamente senza supporto.

Un altro problema è dato dalla distinzione tra disugualianza di reddito e di consumo, ovvero se il risparmio dovrebbe essere tassato come la parte del reddito spesa in beni di consumo. Per esempio, non è chiaro in quale momento il denaro che viene investito in fondi pensione dovrebbe essere tassato, se quando è guadagnato (e quindi prima dell’investimento) oppure quando è prelevato dal fondo, ad investimento finito; ciò che è chiaro è come queste opzioni non siano di certo equivalenti.

Ma c’è un limite alla lunghezza di questo articolo e quindi ho deciso di sorvolare su questi problemi per concentrarmi sulle misure in sé stesse, piuttosto che su questioni che sono inevitabili quando si prova a determinare un criterio di benessere oggettivo.

In questo articolo l’uguaglianza sarà intesa esclusivamente come come uguaglianza di reddito, sulla base di un’ottica secondo la quale l’uguaglianza di reddito è fondamentale.

Inoltre voglio chiarire che mi concentrerò esclusivamente sulla disuguaglianza, tralasciando altri aspetti, per esempio i trasferimenti fiscali, che non riguardano strettamente questo aspetto.

Date queste premesse, è ora possibile elencare le varie misure, accompagnandole con una breve spiegazione.

Le misure regolamentari

In questo gruppo includo tutte quelle misure che mirano a diminuire la disuguaglianza tramite qualche tipo di norma imperativa (es. leggi, regolamento, accordi derivanti dlla contrattazione collettiva, etc).

Il salario minimo

L’idea dietro al salario minimo è piuttosto intuitiva: se alcuni lavoratori guadagnano molto poco, imporre che vengano pagati di più appare come un’ovvia soluzione al problema. E’ una misura indirizzata esclusivamente ai lavoratori, quindi si presume che i disoccupati abbiano un reddito garantito da qualche altra misura.

Contrattazione collettiva

In molti paesi industrializzati i lavoratori, o almeno alcune categorie di questi, sono organzati in sindacati il cui compito principale è negoziare con i datori di lavoro, generalmente anch’essi riuniti in un’organizzazione, i salari e le condizioni lavorative. La logica è molto simile al salario minimo, ma in pratica è molto più flessibile: tale strumento può adattarsi alle condizioni del mercato del lavoro più velocemente di una legge, che dovrebbe essere cambiata attraverso un’assemblea legislativa.

Trasferimenti fiscali

Sono quelle misure che si concretizzano in un trasferimento di reddito o di patrimonio da un gruppo di individui ad un altro. Tecnicamente anche pagare imposte progressive per la difesa nazionale e la sanità è un esempio di questo tipo di strumenti, per le ragioni elencate sopra.

Sussidi ai salari

Un’altra idea molto comune è quella di un’integrazione di un salario ritenuto troppo basso tramite una diminuzione del costo del lavoro o addirittura una qualche forma di tassazione negativa (i c.d. “sussidi al reddito”: lo Stato, anziché tassarti, ti aiuta).

E’ una misura che si applica solo ai salari. Rispetto alle misure che saranno considerate successivamente, o che sono state considerate in precedenza, il sussidio ai salari incentiva il lavoro, anche se può portare ad alcuni problemi, come vedremo.

Reddito minimo garantito

Un’altra soluzione piuttosto ovvia è semplicemente dare soldi a chi ne ha bisogno in qualche modo. Il concetto di reddito minimo garantito racchiude l’idea che se il reddito di una persona scendesse sotto una certa soglia questo dovrebbe essere integrato in qualche maniera, generalmente colmando la differenza tra soglia e reddito.

Negli ultimi anni l’idea di un reddito di base destinato a tutti i cittadini, indipendententemente quindi dal reddito comunemente inteso, è diventata sempre più popolare. Questa idea non è tanto diversa da quella del reddito minimo garantito quanto potrebbe sembrare: lo Ubi (Universal basic income, ndr) è soltanto un tipo di reddito minimo garantito con uno schema di trasferimenti che è sì diverso, ma solo formalmente, dato che anche un reddito universale dovrebbe essere finanziato in pratica dagli individui più benestanti.

Negative income tax

Premetto già che anche questa misura può essere resa molto simile, o proprio equivalente alle altre due già citate. Essenzialmente questa misura propone l’utilizzo di uno o più scaglioni con aliquota marginale (ossia la percentuale di reddito tassata, per la porzione di reddito che rientra nello scaglione) negativa.

Esempio di una “normale” imposta progressiva:

due scaglioni: uno da reddito 0 a 10.000 ed il secondo da 10.000 in su

Due aliquote marginali: 10% sul primo e 50% sul secondo

Una persona con un reddito di 20.000 pagherebbe 10%*10.000+50%*(20.000-10.000) = 6.000

Esempio con un un’aliquota marginale negativa:

due scaglioni: uno da reddito 0 a 10.000 ed il secondo da 10.000 in su

due aliquote marginali: -50% sul primo e 50% sul secondo

Una persona con un reddito di 5000 dovrebbe pagare -50%*5000=-2500. Avrebbe quindi un sussidio di 2500.

Di conseguenza questa misura incorpora anche il concetto di reddito minimo garantito poiché un reddito di 0 avrebbe un sussidio (nell’esempio sopra, di 5000).

Il punto davvero forte della negative income tax è che l’imposta può essere strutturata in modo da diminuire i problemi associati con le altre misure fiscali.

Discussione

Chi paga?

Mi preme iniziare con un discorso che è spesso trascurato nelle discussioni riguardo alla disuguaglianza, cioè chi effettivamente finanzia le misure e se queste sono effettivamente compatibili con il semplice obiettivo specificato prima, ossia: diminuire la disuguaglianza di reddito.

Per iniziare è importante notare che c’è una distinzione abbastanza netta tra misure come il salario minimo, che si basano su regolamenti, e strumenti come lo UBI. In particolare è chiaro che i trasferimenti dovranno essere pagati da qualcuno, in qualche modo.

Ma è importante ricordare che questa differenza è illusoria; misure come il salario minimo hanno dei costi, nel senso che danneggiano qualcuno, semplicemente questi vengono pagati senza passare dallo Stato: anziché tassare i datori di lavoro, questi sono costretti da una norma a pagare di più i propri dipendenti. Questa dopotutto è la logica dietro al salario minimo: un trasferimento dal datore di lavoro (generalmente percepiti come benestanti) ai lavoratori (generalemente percepiti come poveri, almeno nel caso di quelli il cui salario sarebbe interessato dalla riforma). Sfortunatamente questo evidenzia un problema significativo del salario minimo: non è possibile modificarlo per assicurarsi che la misura colpisca soltanto i datori di lavoro considerati benestanti, il che potrebbe portare ad effetti distributivi abbastanza perversi.

In generale, la maggiore flessibilità è uno dei punti forti dei trasferimenti fiscali.

Immaginiamo che ci sia un livello minimo di sussistenza, sotto al quale è stato deciso che nessun individuo debba rimanere. Questo programma fatto con trasferimenti potrebbe consistere in reddito minimo garantito, pagato dagli altri cittadini, ma con provvedimenti regolatori (come forzare i datori di lavoro a pagare un certo salario ai lavoratori) ci possono essere effetti perversi, ad esempio un imprenditore che deve pagare i dipendenti più di quanto guadagni.

Questo problema non esiste per quelle misure che puntano a regolare la distribuzione dei salari, ma in quel caso servirebbe qualche altra misura per diminuire la disuguaglianza tra salari e redditi da capitale.

Date solo queste considerazioni, è difficile non concludere che i trasferimenti fiscali sono effettivamente superiori. Ma la verità è molto più complicata.

Chi ne beneficia e chi paga veramente?

La discussione precedente presumeva che l’intento dello Stato andasse effettivamente a buon fine, ossia che le misure andassero a colpire chi era stato effettivamente individuato dal Legislatore (per esempio ho trattato il salario minimo come un costo a carico del datore di lavoro). In realtà tutta la discussione della sezione precedente è incredibilmente complicata dal fatto che chi paga per un’imposta o una regolamentazione può essere molto diverso da quello che potrebbe sembrare. Le accise sulla benzina non sono pagate dai benzinai, ma dai consumatori. Il salario minimo può essere pagato tanto dal datore di lavoro quanto dai suoi clienti.

Tutte queste cose hanno una radice in comune: alcuni attori economici possono spostare il costo di alcuni provvedimenti del governo su altri. I consumatori hanno bisogno della benzina, non possono facilemente sostituirla, i benzinai hanno relativamente meno bisogno di vendere, alla fine potrebbero sempre cambiare lavoro, nel peggiore dei casi (ovviamente questa non vuol dire che cambire lavoro sia particoalrmente facile, solo che è relativamente più facile che per i consumatori trovare un sostituto per il carburante). Se i consumatori sono disposti a pagare più per un bene prodotto da lavoratori il cui salario minimo è aumentato, è ben possibile che siano loro a pagare per l’aumento del salario.

Un famoso esempio di questo spostamento dell’onere fiscale è il sistema dei contributi sociali che in diversi paesi del mondo sono suddivisi formalmente tra datori di lavoro e lavoratori. In pratica però i lavoratori hanno bisogno del lavoro molto più dei datori, il che porta inevitabilmente a far pesare l’interezza, o quasi, del carico fiscale sui primi piuttosto che sui secondi, anche per la parte che tecnicamente non dovrebbero pagare.

Questo ha conseguenze significative sull’analisi di alcune misure.

E’ ben possibile che i lavoratori perdano il lavoro a causa del salario minimo in uno scenario in cui alcune imprese siano costrette a chiudere o trovino più conveniente rimpiazzare i lavoratori con macchine. Però ora sorge spontanea una domanda: quanto è significativo questo fenomeno? Nella teoria economica dei mercati competitivi la risposta non è così immediata, perché dipende da quanto l’aumento del salario possa essere compensato da un incremento dei prezzi che i consumatori devono pagare e da quanto i lavoratori siano sostituibili. Infatti l’effetto di disoccupazione è maggiore quando il lavoro è rimpiazzabile da macchine ed i beni prodotti dai lavoratori soggetti al salario minimo hanno dei sostituti che non impiegano quei lavoratori nel loro processo produttivo.

I trasferimenti fiscali avranno un effetto negativo a causa dell’incremento dell’imposizione fiscale necessaria, inoltre le misure che garantiscono un reddito incondizionato a tempo indeterminato hanno effetti sostanzialmente identici al salario minimo, eccetto che i lavoratori disoccupati sarebbero più protetti. Il sussidio al salario ha un problema alquanto curioso: non è impossibile che parte del sussidio sia preso da datori di lavoro/consumatori, perché anche se è vero che il salario con sussidio sarebbe superiore al salario pre-riforma, è anche vero che il salario senza sussidio post-riforma sarà probabilmente inferiore, a causa dell’ingresso di nuovi lavoratori nel mercato, attirati da salari più alti (un altro effetto perverso di misure che incoraggiano il lavoro, come i sussidi ai salari).

Questo effetto non è però presente nelle misure come la negative income tax, o almeno il sussidio può essere strutturato in modo da ridurre questa distorsione. Questo significa che misure di questo tipo possono generare problemi come le misure regolamentari, ma è chiaro che tra le due opzioni i trasferimenti fiscali sono strumenti decisamente più flessibili e raggiungono l’obiettivo prefissato in maniera più efficiente.

Questi ragionamenti sono la conclusione inevitabile di un’imposizione (fiscale, per esempio) in un mercato competitivo, in cui nessuna impresa, consumatore o lavoratore ha un grosso potere di mercato. Molto spesso però molte imprese hanno una posizione di vantaggio rispetto a consumatori e lavoratori, e ciò può modificare in maniera significativa le conclusioni a cui siamo arrivati prima. Ipotizziamo per esempio un sussidio al salario di lavoratori che hanno a disposizione soltanto un’opzione lavorativa: è chiaro che questi saranno alla mercè dei datori di lavoro, che saranno disposti a pagarli soltanto quel tanto che basta a fargli accettare il posto di lavoro. Di conseguenza la discussione precedente si ribalta: il sussidio ai salari sarà ovviamente catturato interamente dalle imprese in posizione di forza (che abbasserano il salario in modo da compensare il sussidio), mentre un salario minimo potrebbe addirittura aumentare le persone impiegate (trasferimenti che hanno l’effetto di imporre di fato un salario minimo, come il reddito minimo garantito hanno un simile effetto positivo).

Queste misure in pratica

Studi empirici sull’effetto del salario minimo sulla disoccupazione hanno dato risultati contrastanti. Considerando il discorso affrontato nella sezione precedente, questo non dovrebe sorprendere, visto che la risposta attesa può dipendere da molti fattori. Infatti vi sono diversi studi che collegano la diversa risposta occupazionale alla diversa concentrazione di datori di lavoro: la disoccupazione sale dove i mercati del lavoro sono più competitivi, mentre ci sono effetti nulli o addirittura positivi nei mercati dove le imprese hanno maggiori poteri negoziali.

E’ importante notare che generalemente la contrattazione collettiva tende ad essere più flessibile del salario minimo, comprendendo anche condizioni lavorative e sicurezza occupazionale. Da questo punto di vista è difficile preferire una misura come il salario minimo.

Ci sono alcuni studi riguardo al fatto che misure di sostegno al salario hanno aumentano i lavoratori nel mercato e tendono ad abbassare i salari rispetto al salario pre-riforma (ma meno del salario con sussidio post riforma). Uno studio in particolare afferma che circa il 30% del sussidio è catturato dalle imprese che impiegano lavoratori a basso salario.

Per quanto riguarda la negative income tax, il suo effetto stile Ubi (ossia garantire un reddito indipendente dall’essere lavoratore) significa che diminuisce l’incentivo al lavoro ed aumenta la disoccupazione, anche se questa non deve necessariamente essere vista in maniera negativa finchè l’effetto non diventa eccessivo – il che generalmente non accade.

Conclusioni

Purtroppo non esiste un’opzione inequivocabilmente migliore delle altre, perché dipende molto dalle condizioni nel mercato del lavoro. Però ritengo che la negative income tax abbia diversi puti di vantaggio sulle altre misure, specialmente considerando che moltre altre misure possono essere implementate con quel sistema. Per esempio è facile introdurre un salario minimo di fatto, stabilito dal sussidio con un reddito di 0, ma allo stesso tempo incentivare il lavoro non abbassando o addirittura aumentando il sussidio all’incremento del reddito.

Di conseguenza ritengo che la negative income tax sia decisamente la misura migliore tra quelle qui elencate. Una discussione più approfondita sulla disuguaglianza dovrebbe però tenere in considerazione anche fattori ulteriori e molto differenti, come l’educazione e quei circoli viziosi che portano alla povertà.

Massimiliano Montorsi

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