#BlackOutTuesday: la banale oscurità di quel riquadro nero

Sui social media il buon costume si evolve e si specifica contenutisticamente ad una velocità impressionante, senza più quella parvenza di stabilità o almeno di lenta e criticamente travagliata rielaborazione che nel mondo “reale” consentiva di qualificarlo come parametro giuridico.

Influencer, artisti, social media manager di marchi e organizzazioni (che sfruttano i social per stabilire una connessione più “personale” e meglio fidelizzare i fans e la clientela) conoscono bene la fretta di conformarsi all’ultima moda morale, non tanto per spiccare in positivo quanto per non farsi recriminare un’arretratezza di pensiero che può risultare pericolosa, portando in extremis alla temuta “cancellation”- una damnatio memoriae equivalente all’esilio dalla community digitale.

L’esempio più recente risale appena a ieri: nel giro di poche ore Instagram si è messo in gramaglie.

Hashtag #BlackoutTuesday: la cascata infinita del mio feed si è convertita in una serie interminabile di immagini totalmente nere, recanti in descrizione riferimenti più o meno vaghi al caso George Floyd e alle proteste contro il razzismo della polizia che stanno scuotendo gli USA in questi giorni, nonché link a siti per donazioni e petizioni da firmare online. Questa “protesta digitale” ha avuto una larghissima adesione: la maggioranza dei profili che seguo ha prontamente abbracciato la challenge causa, e l’abituale formicolìo arcobaleno della dash ha lasciato spazio perlopiù al buio e al silenzio (#Muted), con la buffa eccezione degli ads, che un algoritmo evidentemente ancora moralmente imperfetto non ha saputo adattare in tempo al lutto generale.

Forse seguo solo profili gestiti da cittadini americani? No, non direi.

Magari degno del mio follow solo persone che si distinguono per il robusto codice etico, particolarmente sensibili ai temi cari all’attivismo internazionale? La risposta è ancora no.

E allora come si spiega tutta questa improvvisa partecipazione emotiva, quest’empatia che si fionda oltre l’oceano, incurante della distanza?

Sarebbe bello ma insincero rispondere che questa non è che la normale, consueta risposta ad eventi della gravità della morte di George Floyd. In realtà si tratta di una reazione abbastanza anomala. Disgrazie nel mondo ne accadono tutti i giorni. Guerre, abusi di potere, rivolte ben più cruente di questa non scarseggiano.

La viralità di questa protesta in particolare è dovuta al fatto che si tratta di una vicenda americana (e l’americanocentrismo dei social è innegabile) e che si è trovato un modo facile e poco impegnativo per “parlarne”.

E’ questo secondo aspetto che critico e provocatoriamente assimilo a un meme o a una challenge di quelle che spopolano a ondate per una settimana o due, e poi svaniscono perché “il gioco è bello quando dura poco”.

Molti attivisti in realtà hanno nella stessa giornata di martedì sollevato rilievi critici sul #BlackOutTuesday, sottolineando come “slacktivismlike this only goes so far before it starts doing more harm than good”. Una conseguenza sicuramente negativa, anche se non prevista, del boom di questo trend è consistita nel fatto che tutte queste immagini nere sono poi state taggate #blacklivesmatter e simili, finendo per sommergere i contenuti originali e veramente significativi (video, testimonianze, riflessioni) relativi alle proteste. C’è stato allora il tentativo di invertire la rotta, ed è stato fatto circolare l’appello a eliminare le foto nere per ripristinare la funzionalità dei tag, con risultati sinora poco soddisfacenti.

Ma problematica è anche quella che potremmo definire la “banale oscurità” del simbolo scelto – il riquadro nero. A dire il vero la cosa non è stata predisposta a tavolino nei termini in cui poi si è popolarizzata: originariamente #BlackOutTuesday era nata come un’iniziativa interna al settore musicale e rivolta ai soli artisti, invitati da Brianna Agyemang e Jamila Thomas, dirigente dell’Atlantic Records, ad astenersi dal pubblicare nuovi contenuti per lasciare “il palco” alle proteste di Minneapolis.

Il motif del quadrato nero però è stato evidentemente abusato e il suo uso massiccio e scriteriato ne ha distorto il messaggio. Da rispettosa uscita di scena dei personaggi del mondo dello spettacolo effettuata allo scopo di cedere il microfono ai protesters, il “black square” è diventato il pretesto che ha permesso alla massa degli utenti dei social di precipitarsi ad affollare il palco che era stato destinato ai veri protagonisti della vicenda. Un’occasione per dimostrare agli altri la propria altezza morale (virtue signalling), per di più paradossalmente senza essere costretti ad esprimere alcun contenuto, nel momento in cui invece il dialogo e lo scambio di informazioni è più vitale che mai. Un coro di muti talmente sterminato da soffocare i solisti: un performance senz’arte, per il semplice, meschino quanto umano desiderio di stare anche noi, almeno un po’, sotto i riflettori.

Il riquadro nero, dicevo, è banale ed è oscuro, perché è facile da replicare (requisito di ogni fenomeno memetico) ma è di difficile interpretazione, o meglio, può voler dire molte cose, ma non ne esprime chiaramente nessuna. Una comoda reticenza, si potrebbe insinuare.

Ma la verità è che postare un quadrato nero non serve a niente.

Non serve ai manifestanti, che in questo momento hanno bisogno di fondi (in questo senso l’inclusione di link di siti dove effettuare donazioni configurerebbe una parziale redenzione) e ancora di più di essere ascoltati (idealmente dalle loro stesse istituzioni e dagli uomini che le incarnano, ma la comprensione di questa vicenda per certi versi paradigmatica non può certo nuocere ad alcun essere umano).

Postare un riquadro nero può, a seconda dei casi, contribuire a gratificare il nostro ego o a placare l’istinto di emulazione, di molto potenziato dai social media. Non dico che molti di noi non l’abbiano fatto in ottima fede, ma, a prescindere dalle buone intenzioni, le conseguenze sono state quelle (maldestre, quando non controproducenti) illustrate sopra.

Diversamente, seguire con attenzione le vicende delle tensioni sociali scaturite dall’omicidio di George Floyd può essere educativo per chiunque, a patto di resistere ad ogni istinto di protagonismo, di semplificazione e di trapianto acritico del dibattito che si sta sviluppando negli States nel contesto in cui viviamo.

Ma ciò di cui davvero abbiamo bisogno, oserei dire, non ha direttamente a che fare con le proteste di Minneapolis. Si tratta, dopotutto, di un problema interno di un paese che non è il nostro: sottolinearlo non giustifica un nostro disinteressamento, ma evidenzia il nostro scarso potere di influenzare la situazione, per quanto ci stia a cuore.

Un altro è lo Stato di cui siamo cittadini: la Repubblica Italiana, per la precisione, che abbiamo festeggiato la mattina di quello stesso 2 giugno che abbiamo concluso con un riquadro nero. Non può sfuggire la suggestiva ironia dell’accostamento: la mattina si elogia la Repubblica, il pomeriggio si biasimano i Republicans. Giochi di parole a parte, in una singola giornata è stato possibile apprezzare l’ineliminabile chiaroscuro delle istituzioni, che possono tanto rappresentare i valori e le aspirazioni migliori di una società, quanto sconfessare i primi e deludere le seconde in maniera rovinosa e talvolta irreparabile (fra i protesters americani accoglie crescente favore una dottrina che propone di abolire la polizia in toto).

Se l’Italia (e, allargando un po’ lo sguardo, l’Europa) è il nostro campo d’azione, politica e non solo, allora forse ciò che davvero ci serve è una riflessione sulle ingiustizie e i problemi di casa nostra, razzismo incluso, che sono quelli su cui abbiamo la maggiore probabilità di agire con efficacia. Invece di importare una sensibilità etica preconfezionata made in USA, magari esibita nelle vetrine dei social ma di fatto difficilmente applicabile a un contesto diverso da quello d’origine, conviene che accettiamo l’alea di un impegno dai riflessi concreti sulla realtà di cui siamo parte, partecipando così nello spirito a tutte le battaglie giuste, ovunque si combattano – al di qua o al di là del mare.

 

Lucia Bezzetto

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