LEGGERE ATTENTAMENTE IL FOGLIETTO ILLUSTRATIVO

Resoconto ad un metro dalla Fase 2

Sopra il letto della mia camera c’è una finestra enorme. Svegliarsi e immergersi nel blu immacolato è come rinascere. È una delle poche attività, quella di guardare il cielo, che allevia la pesantezza di queste giornate ovattate. Se ci pensate è quasi come viaggiare in moto. Nonostante la libertà del vento tra i capelli, della brezza che entra nella maglia asciugando il sudore di un’estate afosa, le voci non sono chiaramente udibili. Anzi, il rumore assordante del vento finisce con lo stordirti e quando il motore si ferma sembri atterrata su un altro pianeta: ti senti diversa, spaesata. Questa sensazione è come quella che stiamo vivendo noi oggi, è come il tempo che stiamo riempiendo con le nostre vite. Ebbene sì, per noi che abbiamo avuto la fortuna di continuare il nostro percorso terreste, la vita trascorre nel tepore delle mura domestiche. E a volte ci sentiamo protetti in una candida bambagia, altre siamo come animali in gabbia e costretti a fare i conti con i nostri mostri, con ciò che siamo davvero, con la paura della fragilità. Eliminando tutto il superfluo, non rimane che l’essenza dell’assenza. Riconosciamo in noi la figura di un peccatore senza colpe: costretti a scontare una pena ci dichiariamo innocenti di fronte a qualcosa più grande di noi.  

Quando tutto questo è partito non ce ne siamo fondamentalmente resi conto. Ci hanno detto che saremmo stati pronti, che non ci sarebbero state contro indicazioni. Chi si sarebbe mai preso la briga di leggere il foglietto illustrativo delle aspirine? Ma poi chi li legge mai quei papiri fatti di lettere minuscole con termini comprensibili ai pochi? “Tanto è una semplice influenza” ci hanno detto. Non è andata così: mentre tutto intorno a noi cambiava, ci siamo riscoperti riflessivi e a volte analisti di noi stessi. Questo periodo ci è servito per rivalutarci, per mettere in subbuglio le nostre vite che inevitabilmente sono diventate disordinate, disorientate. Questo caos lo abbiamo vissuto soprattutto noi universitari. Il nostro “lavoro” non si è mai fermato, ma è stato caricato di responsabilità diverse: difficoltà economiche delle nostre famiglie che si sono riversate sulle nostre spalle e dolori per i nostri cari che hanno dovuto affrontare la malattia sono solo alcuni esempi. Il tutto è stato enfatizzato dalla presenza costante dell’incertezza che è entrata a gamba tesa pregiudicando il nostro futuro. Se prima la tenevamo a bada, mentre ci faceva capolino all’angolo delle nostre scelte, ora possiamo dire di averla conosciuta. Non sarà facile farla uscire dalle nostre esistenze riappropriandoci di quel briciolo di pazzia che solo noi giovani possiamo usare per scegliere. 

Durante questa quarantena sono stati attribuiti significati diversi alle parole. Il tempo, ad esempio, non è più un’agenda da riempire o qualcosa di cui diciamo essere a corto per procrastinare un impegno non importante. Il tempo è diventato il luogo della riflessione, della scoperta, dell’attenzione verso chi ci sta intorno e verso noi stessi. Abbiamo riconosciuto l’importanza della salute, l’abbiamo messa al primo posto. Ora, purtroppo lo abbiamo fatto solo ora. Abbiamo inoltre capito che il calore più ardente è quello di un contatto umano proprio perché ora a scaldarci è solo il suo lontano ricordo. Abbiamo capito che la libertà non è di andare da qualche parte, ma di essere noi stessi indipendenti dal posto.

Ci è capitato di popolare la valle estesa dello sconforto, di far emergere le nostre debolezze. Spesso abbiamo creduto che fosse tutto perso, che non ci saremmo mai ripresi, rialzati. Allora quel cielo immacolato è diventato minaccioso. Per ore o forse per giorni abbiamo fatto fatica a prender fiato e sonno, gelati dietro sbarre verde petrolio. Lo sguardo è diventato rassegnato, come quello di chi priva il sole dei suoi occhi. Il cuore ha iniziato a pulsare forte. Come una sirena d’allarme si agitava in una dimensione d’incertezza, d’irrealismo, d’allarmismo. Eppure il cielo si è aperto di nuovo quando siamo tornati a respirare. Tra le numerose vite infrante, noi respiravamo. 

Sì, potevamo farlo. Sì, possiamo farlo. 

Abbiamo pianto e buttare fuori quell’acqua e sale è stato liberarsi. Che più la tieni dentro e più lei corrode, invade, annega. Riappropriandoci delle forze abbiamo chiuso la mano in un pugno sussurrandoci che sarebbe passato, seppur con qualche lungo strascico, con qualche cicatrice. Siamo ritornati a guardare il cielo. E lì l’immagine si è colorata di numerose bandiere tricolore che sono state rispolverate per ornare i nostri balconi. L’ultima volta che la mia mente ricorda di aver assistito a questo scenario erano i mondiali di calcio del 2006. Ricordo vivamente la piazza del mio paese gremita di gente per festeggiare. E i sorrisi, i saltelli, le braccia in aria e i visi dipinti dei nostri colori. Ragazzi ovunque, ammassati nella foga della vittoria, condividendo un sogno divenuto realtà. Se lo urlavano contro: “abbiamo trionfato!”. Le bandiere sui balconi sono le stesse, ma lo scenario è molto più cupo. Nel 2006 festeggiavamo l’impresa, oggi speriamo per la rinascita. Queste due situazioni agli antipodi sono però accomunate dalla stessa forza: da una parte quella dei ragazzi che si abbracciano nell’ultima spinta di adrenalina, dall’altra quella della nostra gente, dell’Italia che respira, resiste e spera.  

Impareremo ancora tante cose. La bocca non sarà più il traduttore delle nostre emozioni, ma saremo costretti a comunicare con gli occhi. Saranno le piccole rughette che li circondano ad esprimere un’insensata felicità e la fronte si corruccerà per ribadire disappunto. I nostri rapporti interpersonali subiranno frenate, alcuni si rafforzeranno per aver superato questo duro arco temporale insieme. Per alcuni di noi sarà difficile convivere con il ricordo di chi non c’è più perché non riusciranno a darsi pace con una spiegazione ragionevole. Tutti saremo costretti ad affrontare una rivoluzione: per i più fortunati, il cambiamento partirà da esigenze interiori, gli altri si adatteranno ad un mondo diverso da quello che conoscevano. In entrambi i casi ridisegneremo l’argine entro cui si muove la nostra esistenza, separando il contenuto dalla sabbia bagnata della riva. 

Stiamo attraversando la fiumana, ma ne usciremo. 

Maria Sola

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