Anche i santi vanno all’inferno

I racconti pasoliniani che vivono all’interno della macchina da presa sono racchiusi a fatica in uno schema narrativo preciso e ben delineato.

Il metodo neorealista (in parte verista) viene, pellicola dopo pellicola, superato e alienato. Gli elementi cinematografici si complicano, mentre il vissuto spirituale e fisico di Pasolini sostituisce in modo prepotente il soggetto del film.

Vi è qualcosa di grezzo, in quanto reale, nelle immagini forti delle pellicole, evidenziato dalla nitidezza del metodo registico; la storia vive mentre Pasolini osserva e dirige un microcosmo, specchio di una nascosta quotidianità e di un mai celato turbamento morale ed intellettuale.

Non è un cinema semplice né distensivo, e non pretende di esserlo: il dovere morale di Pasolini è colpire lo spettatore che, a sua volta, ha il difficile compito di interrogarsi sui propri costrutti etici e sull’ethos quotidiano in cui è immerso a forza.

I personaggi pasoliniani sono animali coscienti (e per questo degni di essere raccontati), che non rifuggono la propria natura. Essi sono un alibi per provocare, suscitare, reazioni istintive in seno al pubblico e ai pochi che hanno il coraggio di chiedersi: “quanto c’è di mein ciò che ho appena osservato?”.

Risulta evidente come i film di Pier Paolo Pasolini siano un inquieto succedersi di immagini in grado di colpire i lati più reconditi della mente. E’ un cinema sincero, non sente il bisogno di nascondere o giustificare l’opera; la si può accettare o meno, ma non la si può ignorare.

La ricerca artistica di Pasolini dà forma alla sintesi fra fisicità e spiritualità, una sintesi rinnegata e paventata dall’Italia bigotta del ‘900, ma reale ed esperibile (e da tanti esperita). Buona parte della società italiana si chiede come un omosessuale marxista, un borghese disconosciuto, possa giudicare una società candida ed eticamente retta su valori solidi e cristiani. Pasolini lo fa, svelando il lato morboso e osceno di un’apparenza sacra e senza valore alcuno, di un mondo ipocrita pronto a condannare il prossimo e mai a salvarlo. “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”, le parole espresse da Orson Welles, diretto da Pasolini in Ro.Go.Pa.G( film a episodi datato 1963), sono la summadel pensiero pasoliniano. Non a caso, in diverse pellicole, egli è voce del sottoproletariato, componente sociale disperata e rifiutata, spesso delittuosa o criminale, ma sicuramente meno filistea e meno negletta della classe dominante. Egli è il regista degli ultimi, un messia provocatore ed eretico, un contestatore imprudente.

Perché sottostare alla dittatura dei costumi? Perché accettare passivamente la realtà che circonda ogni aspetto della nostra esistenza? Cosa vi può essere di immorale o di innaturale in un individuo libero dai retaggi fintamente candidi del mondo occidentale? La risposta di Pasolini è chiara: la moralità esiste solo nel momento in cui un individuo è libero di provare il proprio, personale, piacere.

 

“In una società dove tutto è proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa.”

Pier Paolo Pasolini

 

 

Alessandro Stefani

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