La Battaglia: I Phineas Gage dell’era moderna

Probabilmente dire che questo testo non vuole fornirvi certezze sembrerà un mettere le mani avanti, ma questo è l’esatto scopo che mi propongo: nessuna conclusione indiscutibile, ma piuttosto cercherò di piantare un germoglio che induca al ragionamento.  Il seguente estratto è la cornice della riflessione che segue, nonché il nucleo portante della tesi:  Un operatore economico che è stato educato in un ambiente favorevole al guadagno ad ogni costo potrebbe essere più facilmente spinto ad influenzare l’opinione pubblica ad acquistare un prodotto eticamente negativo diffondendo l’immagine emotiva dell’accettabilità del prodotto stesso (si pensi alla pornografia, in particolare verso i minorenni). Può accadere quindi non solo che al livello del produttore l’adesione emotiva non venga messa razionalmente in discussione, ma che lo stesso consumatore rifiuti il prodotto pornografico solo se ha un atteggiamento emotivo contrario e tale da resistere alle campagne di persuasione.

Qualcuno tra voi lettori sicuramente conoscerà il caso di Phineas Gage, un operaio statunitense divenuto celebre per un incidente che non solo cambiò la sua vita, ma impose addirittura di modificare tutte le basi scientifiche fino ad allora usate per lo studio del cervello umano. 

Mentre Gage lavorava alla costruzione di una linea ferroviaria, un’esplosione di polvere da sparo gli fu quasi letale. Questo “quasi” gli sarebbe valso negli anni l’appellativo di miracolato. Il ferro di pigiatura che stava usando per svolgere la sua mansione gli penetrò la testa, interessando i lobi frontali del cervello. Sorprendentemente però dopo pochi minuti era già lucido, parlava e poteva camminare nonostante un tubo di metallo che gli si fosse conficcato da parte a parte. Si gridò al prodigio, fino a che non si scoprì che la sua personalità era radicalmente cambiata. Il resto della sua vita infatti, che si concluse dodici anni dopo, fu dominato dalla blasfemia, dall’irascibilità e da sbalzi d’umore repentini.  Questo racconto può provocare una reazione di stupore e allo stesso tempo un atteggiamento di distanza nel lettore; ma la nostra condizione non è poi tanto dissimile da quella narrata. 

Soprattutto quando compiamo il gesto quotidiano di oltrepassare le porte scorrevoli del supermercato, quella lastra di ferro ci colpisce in pieno cranio, facendoci divergere dal nostro normale essere. È come se la nostra razionalità subisse un duro colpo, difficilmente quantificabile ma innegabile. Prevale l’impulso, l’istinto, l’abitudine. Del cervello rimane ben poco e si inizia ad agire con le viscere, la pancia. 

La verità è che ognuno di noi è influenzato da tutte quelle politiche messe in atto dall’impresa per coinvolgere il consumatore, per persuaderlo della superiorità di certi prodotti. Tutto è determinato da un’immagine inafferrabile che il nostro cervello elabora della marca, del prodotto, dell’impresa in generale. È tutta questione di reputazione, dicerie, mode. E come nelle sabbie mobili, veniamo completamente risucchiati dal volere di un soggetto a noi estraneo, spinto a muoversi per brama di becero interesse economico.

Ma oltre alle politiche di marketing tradizionale, al di là della pubblicità, della stampa cartacea e della cartellonistica, negli ultimi anni sta prendendo sempre più piede il cosiddetto “neuromarketing”. Si tratta dell’analisi di quei processi inconsapevoli che avvengono nella mente del consumatore sulle decisioni d’acquisto o sul coinvolgimento emotivo nei confronti di un brand. E come un cecchino, l’impresa afferra questa sua arma indiscutibilmente efficace. L’impugnatura è sicura perché ne conosce le qualità, perché riconosce il vantaggio nel possederla contro dei clienti inermi. Uno tra gli strumenti più incredibili del neuromarketing è il Brain Imaging che consente di evidenziare le area più attive del nostro cervello durante un compito sperimentale. Questo compito può tranquillamente essere l’osservazione del consumatore nel suo processo decisionale, nel suo percorso esplorativo tra scaffali e testate di gondola. Utilizzando questi mezzi l’impresa conosce, già prima che noi ci rechiamo nel supermercato, quale prodotto sceglieremo. Non è importante la tua età, il tuo sesso, i tuoi colori preferiti o soprattutto i tuoi gusti. Si gioca tutto prima, in una partita dove il consumatore non possiede ruoli. Lui entra in scena dopo il fischio finale e quindi il suo contributo è ininfluente. 

In questo quadro desolante, l’unica conclusione possibile è la nostra inettitudine avvolta dalla consapevolezza che il momento della scelta non esiste. Quello che rimane è uno sguardo confusionario al packaging, un ricordo vago alla musica utilizzata per la pubblicità, del testimonial famoso di turno che lo sponsorizza oppure, banalmente, nessuno di questi: si arraffa il primo prodotto che capita a tiro. 

Allora a questo punto, tra armo e disarmo, coscienza dell’impresa e incoscienza di noi tutti, le seguenti considerazioni sorgono spontanee: fino a che punto possiamo non scegliere? Fino a che punto la nostra mancanza di razionalità non cambia la nostra unicità? Arriverà un momento in cui l’etica ci fermerà? O ci spingeremo nell’abisso più profondo? Saremo mai in grado di resistere alle campagne di persuasione? Fino a quando saremo delle riproduzioni di Phineas Gage?

Una risposta, come preannunciato, non c’è. Possiamo però dire che in questo mondo tutto è comunicazione che si trasforma in commercializzazione che, a sua volta, sorregge la produzione. Indipendentemente dalle convinzioni che avevamo un attimo prima, scegliamo i prodotti perché sono trendy, perché ne siamo ammaliati e spinti a partecipare attivamente al vortice della moda. Ma l’unica personificazione possibile è nel misero ruolo di una pedina continuamente in contesa tra etica e marketing.

Maria Sola

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