Wasted: il canto degli sprecati

 

Una sala prove dimessa, ammutolita. Lattine di birra giacciono sul pavimento sporco. Gli amplificatori delle chitarre sono stati rassegnatamente adibiti a sgabelli, oppure a tavolini gremiti di alcolici. Il tutto farebbe pensare ad un bar di fortuna, non fosse che sin dall’inizio della pièce scopriamo trattarsi, in realtà, di un mausoleo.

Vi troviamo riuniti, nel giorno dell’anniversario della morte del loro amico Tony, tre vecchi compagni di sballo che neanche la musica che un tempo suonavano insieme riesce più a rasserenare. Charlie, Danny e Ted finiscono le frasi l’uno dell’altra, ma nessuno di loro ha valide risposte ai dubbi che li tormentano, opprimenti come la cortina di smog nebbioso che aleggia sulla loro “città vuota”. Tre vite, le loro, intrecciate fin dall’adolescenza ad una quarta, quella di Tony, spezzata prima del tempo; la sua batteria sul fondo della scena fa da confessionale muto ai bilanci desolati e alla nostalgia dei protagonisti. Charlotte detta Charlie ricorda il coraggio, gli eccessi, la spensieratezza di un’adolescenza che li ha svezzati a forza di alcol e stupefacenti, che li facevano sentire eterni e onnipotenti. 

 

Eternity was in our lips and eyes, bliss in our brows’ bent: sembra di sentire un’eco della Cleopatra shakespeariana nelle sue parole di rimpianto, e d’altra parte non stupirebbe: Kate Tempest, l’autrice di Wasted, molto conosciuta all’estero come rapper, live performer, poetessa e scrittrice, si è laureata in English Literature. Nelle sue opere, pur attualissime per stile e temi, non disdegna di fare riferimenti ai classici (esemplare il suo Brand New Ancients, che le ha fruttato il prestigioso Ted Hughes Prize). 

Sapendo questo è impossibile non intravedere nei protagonisti di Wasted i cugini londinesi dei dubliners di Joyce; come i secondi, anche i primi vengono fulminati da subitanee epifanie che li rendono tutt’a un tratto smaniosi di cambiamento. Ted, ispirato dalle sensazioni cui non dà ascolto da troppo tempo, si ribella al suo noioso lavoro in ufficio; Charlie agisce d’impulso, si licenzia e compra un biglietto aereo, presa dall’istinto di volarsene via prima che un altro giorno della sua vita vada perduto.

Ma al sorgere del sole gli effetti delle droghe svaniscono e la portata delle rivelazioni notturne viene, ancora una volta, ridimensionata. Ted e Danny sfogliano rispettivamente il menù di una tavola calda e il giornale del mattino: ciò che offre a poco prezzo la prima sembra in effetti molto più appetibile delle disgrazie che il tanto idealizzato “mondo esterno” riserva quotidianamente ai suoi avventori.

 

E’ sempre problematico tradurre in una lingua diversa dall’originale un’opera di poesia; nel caso di Wasted ne fanno le (limitate) spese solo un paio di battute, la fiacchezza delle quali si addebita facilmente allo stato di ebbrezza dei personaggi. 

Il tempo e lo spazio dell’azione sono stati adattati al contesto italiano, da un lato portando l’età dei protagonisti da 25 a 35 anni (il che efficacemente esaspera la tragicità della loro paralisi), dall’altro ambientando la vicenda a Roma anzichè a Londra. Ma piuttosto che in un luogo realmente esistente, il trio protagonista sembra annaspare in un limbo atto a rappresentare non una, ma molte possibili realtà relegate ai margini oscuri delle città del mondo: il racconto della turbolenta nottata di Ted, Charlie e Danny scivola a metà fra il realistico e il simbolico.

Va precisato che l’opera di Kate Tempest non intende esprimere giudizi morali, nonostante l’intraducibile ambivalenza del titolo: “wasted” infatti significa sia “strafatto”, sia “sprecato”, ma alla chiusura del sipario è evidente a tutti come la complessità degli interrogativi sollevati non sia risolvibile con una semplice condanna. 

 

Charlie, Ted e Danny mettono le mani avanti già all’inizio dello spettacolo: I don’t have a clue what any of you are doing here, avvertono.

A quest’implicita domanda entro la fine della recita ciascuno nel pubblico potrebbe dare una risposta diversa: Wasted ne vale la pena per l’innovativa e intensa drammaturgia della Tempest, per le canzoni cantate dal vivo (che contribuiscono non poco alla carica emotiva dello spettacolo), per l’interpretazione a figura intera degli attori, capaci tanto di calarsi nel vissuto dei personaggi quanto di indirizzare al pubblico stoccate oblique, metateatrali.

Un esempio ne è Charlie che ad un certo punto esclama, al colmo della frustrazione: “La vita a raccontarci la vita: una cosa assurda, noiosa da morire!”. Un’epifania monca, la cui intrinseca ironia è tutta rivolta al pubblico in sala, il quale sa bene che il racconto, anche della vita più “sprecata”, a teatro è sempre qualcosa di prezioso – e quando questo viene narrato con l’arte e l’eloquenza di Wasted (al Teatro delle Passioni fino al 22 dicembre), è quanto di meno noioso si possa immaginare.

 

Lucia Bezzetto

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