Together we stand, divided we fall – l’esempio di Jane Goodall

Jane Goodall, “la ragazza che vive tra gli scimpanzé”, cammina sui rami a piedi nudi e gioca con gli esemplari più giovani. Divisa color kaki e capelli biondi pragmaticamente raccolti in una coda, un giaciglio per dormire in mezzo a foglie e zanzare per farsi accettare dagli animali selvatici in barba ai più radicati pregiudizi sulle donne che serpeggiano attraverso i secoli. Così appare Jane, nelle numerose foto che la ritraggono da giovane durante le sue ricerche: fotogrammi piuttosto verosimili dell’essenza della sua vita, di tutto ciò che ha sempre sognato di essere e che ancora oggi, a 85 anni, rappresenta.

Jane Goodall divenne famosa grazie allo studio sul comportamento degli scimpanzé che condusse nella Gombe Stream Reserve, in Tanzania. Tutto ebbe inizio quando, nel 1957, mentre visitava un’amica in Kenya, incontrò il paleontologo Louis Leakey che le chiese di assisterlo nella sua raccolta di dati per studiare le somiglianze tra primati ed esseri umani; lì, in maniera spontanea e spesso per passione più che per lavoro, Jane finì per compiere scoperte rivoluzionarie sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé che le garantirono un posto in prima classe tra i più influenti etologi del 20° secolo.

Valerie Jane Morris-Goodall nacque a Londra il 3 aprile del 1934, figlia di un militare spesso assente e di una madre scrittrice paziente e comprensiva. Fin da giovane si interessò alla vita degli animali, indagandone i misteri con curiosità: teneva sempre accanto uno scimpanzé di peluche, Jubilee, e impiegava interi pomeriggi ad osservare gli animaletti in giardino. Nonostante i tempi poco maturi per accettare uno spirito libero come Jane, sua madre non scoraggiò mai i suoi interessi; una volta ella scoprì che la piccola Jane aveva portato una manciata di lombrichi in camera: invece di rimproverarla, le spiegò che i suoi amici avevano bisogno della terra per vivere e, insieme, riportarono gli animali nel loro habitat. Questa lezione sarebbe rimasta per sempre impressa nella mente della Goodall, un piccolo mattoncino su cui avrebbe costruito un’intera esistenza di rispetto e amore per tutte le specie viventi.

Le aspettative sociali per Jane erano quelle di qualsiasi donna del XX secolo: un matrimonio con un uomo raccomandabile, una famiglia e una bella villetta inglese. Uno scenario piuttosto piatto rispetto alle sue più vivide aspirazioni. Jane, bloccata nel suo mondo con la sola compagnia di una fervida immaginazione, sognava la fauna africana viaggiando attraverso i libri; si arrampicava sul suo albero preferito in giardino e si immergeva nei racconti desiderando di poter parlare con gli animali o muoversi in mezzo a loro senza paura come Tarzan. Più volte rimpianse di non essere nata maschio, perché ai maschi era concessa la vita che lei poteva solo immaginare tra le fronde del suo alberello.

Ma la Guerra non concesse a Jane neppure il tempo di fantasticare: invece dell’università la ragazza si iscrisse a un corso professionalizzante per segretarie, diplomandosi nel 1952. I suoi sogni sembravano destinati a rimanere chiusi nel cassetto in cui la vita l’aveva costretta a riporli.

Eppure, come recita un noto proverbio inglese, “where there’s a will, there’s always a way”: pochi anni dopo, un’amica di Jane si trasferì in Kenya e la invitò a farle visita; Jane ebbe così modo di esplorare la sua amata Africa, dopo essersi licenziata dal proprio lavoro in Inghilterra e aver dato fondo a tutti i suoi risparmi. Proprio in questa occasione, durante una visita a Nairobi nel 1957, la ragazza incontrò il celebre paleontologo e paleoantropologo Leakey, oggi noto per aver contribuito a ricondurre lo sviluppo dell’evoluzione umana al continente africano e per il suo impegno nella protezione della vita selvatica in quei territori. All’epoca, lo studioso era curatore del museo di Storia Naturale di Nairobi e studiava gli scimpanzé nel loro habitat naturale; colpito dal carattere determinato della Goodall e dal suo amore incondizionato per gli animali, non esitò a nominarla sua assistente, nonostante ella non possedesse formalmente le competenze necessarie per quel ruolo.

Leakey pensò che una persona appassionata della natura, determinata e svincolata da influenze accademiche come Jane potesse offrire un punto di vista innovativo alla sua ricerca; egli era altresì convinto che le donne fossero generalmente predisposte all’empatia, il che costituiva un vantaggio nell’approccio con una specie selvatica per studiarne il comportamento sociale (affidò il compito anche ad altre due donne: Dian Fossey e Birutè Galdikas).

Jane, armata solo di una mente aperta, amore per gli animali e un’indole determinata e paziente, iniziò così ad assistere lo scienziato nella sua raccolta dei dati sul campo, per poi ottenere alcuni anni dopo l’incarico di studiare autonomamente gli scimpanzé della Gombe Stream Reserve (oggi divenuta National Park), nel 1960.

Il tempo premiò l’intuizione di Leakey, nonostante egli fosse l’unico a scommettere su quella minuta segretaria: inviata ad osservare il comportamento degli scimpanzé per far luce sui nostri antenati, Jane andò ben oltre il proprio compito, studiandoli appassionatamente per l’interesse che suscitavano in lei e il loro valore come esseri viventi sorprendenti e complessi, invece di trattarli come semplice oggetto d’indagine in relazione all’essere umano. Jane compensò la mancanza di esperienza con la sua dedizione alla causa: si concentrò sull’apprendimento di ciò che doveva conoscere per portare a termine il suo compito, e lo eseguì con precisione; non a scopo accademico, ma solo per realizzare il suo sogno fin da bambina: osservare gli animali, vivere tra loro e soddisfare la sua curiosità, lasciandosi sorprendere da ciò che da sola non sarebbe mai stata in grado di immaginare.

Jane arrivò alla riserva il 14 luglio. Leakey non si sarebbe unito a lei nella spedizione, e il Governo dell’epoca, preoccupato che una giovane donna bianca si accampasse da sola in Africa, ordinò a Jane di portare una compagna. Sua madre si offrì volontaria: durante il soggiorno, le due donne si servirono esclusivamente di una tenda militare, pochi utensili in latta e dei servizi del cuoco africano Dominic, oltre all’attrezzatura necessaria per la ricerca sul campo. La madre di Jane aprì un piccolo ospedale, e i pescatori africani arrivarono numerosi per rifornirsi di medicinali e aiutare le due donne ad ambientarsi.

Le prime settimane furono faticose, anche a causa di una fastidiosa febbre contratta poco dopo l’arrivo nella riserva, nonché dell’iniziale diffidenza dei primati verso la studiosa; tuttavia, con il passare dei giorni e grazie al supporto e alla lealtà di sua madre, Jane riuscì finalmente a dedicarsi all’osservazione di uno degli scimpanzé che incontrò nella riserva, da lei denominato “David Greybeard”: fu il primo a non fuggire di fronte a Jane, aiutandola così ad inserirsi nella comunità che intendeva studiare.

L’abitudine della Goodall di chiamare gli esemplari con nomi propri, invece di servirsi di un codice alfanumerico per la loro identificazione (come d’uso nelle indagini scientifiche) venne inizialmente derisa e contestata dalla comunità scientifica; tuttavia, le sue scoperte e la precisione che ella impiegò nelle sue osservazioni, facendo attenzione ad integrarsi nel gruppo di animali senza interferire con le loro attività, le valsero ben presto il rispetto dei colleghi. Jane si recò ogni giorno nei posti dove gli scimpanzé cercavano il cibo, li osservò da lontano, e, gradualmente, si avvicinò ad essi.

Iniziò così per Jane il periodo delle scoperte: al mattino saliva sulle colline e raggiungeva la comunità di scimpanzé, con cui passava la giornata dall’alba al tramonto, sotto il sole o la pioggia; in serata, ritirandosi nella tenda, annotava le sue sorprendenti osservazioni giornaliere. Cominciò a conoscere a fondo la giungla in cui abitava, e mentre metteva insieme le informazioni sui primati, questi si abituavano gradualmente alla strana scimmia bianca che li osservava tra le fronde.

Con il passare del tempo conobbe Goliath, all’epoca maschio-alfa, Humphrey, Rodolf, Leakey e Mike. C’era anche il signor McGregor, piuttosto bellicoso, la femmina-alfa Flo, dal naso tondo e le orecchie lacerate, e la sua progenie, Faben, Figan e Fifi. E ovviamente, il solenne David Greybeard, il primo amico di Jane. Ognuno di questi scimpanzé appariva alla studiosa come un essere pensante, riflessivo, che ricambiava il suo sguardo fissando intensamente i propri occhi nei suoi.

La ragazza li osservò baciarsi, abbracciarsi, darsi una pacca sulla spalla e cercare conforto. Li vide interagire con atteggiamenti profondamente simili a quelli tra esseri umani, e ne rimase estremamente sorpresa: ciò che accadeva davanti ai suoi occhi contraddiceva molte delle più radicate convinzioni scientifiche della sua epoca, secondo le quali l’uomo soltanto era capace di pensiero razionale. Per fortuna Jane, che non era potuta andare all’università, non comprendeva quanto sconcertanti sarebbero potute apparire tali informazioni per la comunità scientifica, ma si rendeva ugualmente conto di avere davanti a sé qualcosa di straordinario.

Un giorno, Jane si imbatté in un tumulo di termiti, accanto al quale sedeva uno dei primati del gruppo. Jane osservò lo scimpanzé infilare in un buco un filo d’erba, ritirarlo e succhiare da questo le termiti con le labbra. Qualche tempo dopo, la ragazza avrebbe visto gli scimpanzé manipolare veri e propri utensili, rompendo rametti e strappandone le foglie, prima di infilarli nel tumulo di termiti: stavano modificando un oggetto, primo passo verso la costruzione di uno strumento.

Fino a quel momento gli scienziati credevano che solo l’essere umano fosse capace di costruire utensili adoperando materiale grezzo, abilità che ritenevano ci distinguesse nettamente dal resto del mondo animale. Leakey scrisse, in proposito: “Ora dobbiamo ridefinire il concetto di utensile e quello di uomo; oppure dobbiamo accettare che anche gli scimpanzé sono umani”.

Con la sua scoperta Jane aveva messo in discussione l’unicità dell’essere umano, azione che comportò come sempre aspre polemiche: i più illustri pensatori e scienziati provarono a smentirla, facendo leva sulla sua inesperienza, ma Leakey ottenne per Jane dei fondi dalla National Geographic Society ed un accordo che prevedeva la presenza di un fotografo naturalista sul campo, per documentare tutte le osservazioni di Jane Goodall. Questo naturalista era Hugo van Lawick, che sarebbe divenuto uno dei più celebri fotografi di fauna selvatica al mondo e primo marito di Jane Goodall, padre del loro figlio Hugo Eric Louis. Egli confermò le scoperte della Goodall, e la accompagnò per molti anni nei successivi studi del Gombe.

Proseguendo con le sue indagini, Jane osservò inoltre che gli scimpanzé mettono in atto guerre, come noi, constatazione questa a cui impiegò molto tempo ad abituarsi; assistette a varie e proprie stragi tra gruppi ormai divisi della stessa comunità, e ne rimase fortemente scossa. Ma quella che può essere considerata la scoperta più clamorosa fu che ogni scimpanzé è differente, capace di sentire emozioni e instaurare relazioni durature: “Ogni scimpanzé ha una personalità unica e ciascuno/a ha la propria storia individuale”. Scrisse Jane, entusiasta. “Certamente non siamo gli unici animali che vivono l’esperienza del dolore e della sofferenza. In altre parole, non c’è una linea netta tra l’uomo e il resto del regno animale. È una linea indistinta e lo sarà sempre.

La paura in una scimmia, un cane, un maiale, viene vissuta verosimilmente alla stessa maniera della specie umana. Giovani animali, umani o di altre specie, mostrano, difatti, comportamenti simili quando sono ben nutriti e sicuri – sono vivaci, saltellano, fanno piroette, rimbalzano, fanno capriole – tanto che è difficile non credere che non provino sentimenti molto simili. Essi sono, in altre parole, pieni di gioia di vivere.

Un giovane scimpanzé, dopo la morte della sua mamma, mostra un comportamento simile alla depressione che affligge i bambini – postura incurvata, dondolio, occhi offuscati fissi nel vuoto, perdita di interesse per quanto accade attorno a sé. Se un piccolo d’uomo può soffrire di dolore, così può soffrire un giovane scimpanzé.

Stare a chiedersi se scimpanzé, elefanti, cani e così via, sperimentino felicità, tristezza, disperazione, rabbia, è uno spreco di tempo – poiché queste cose sono evidenti a chiunque abbia sperimentato nella sua vita una conoscenza degli animali”.

Nonostante l’inaspettato successo raggiunto a soli 26 anni, Jane, la cui sete era quella della conoscenza e non della fama, non arrestò la propria curiosità: la sua dedizione le valse altre importanti scoperte, tra cui l’osservazione che gli scimpanzé non sono vegetariani, come si credeva, ma onnivori. Un’altra caratteristica sconosciuta di questi animali, che la Goodall portò alla luce grazie alle sue osservazioni, furono le battute di caccia che essi organizzano ai danni dei Colobi ferruginosi (primati di una specie differente). Ella infine ebbe modo di approfondire le cure parentali degli scimpanzé, in particolare quelle femminili: osservò che la femmina-alfa Flo si accoppiava con tutti i maschi della comunità, ma che il figlio ne era geloso; notò che Flo era una madre affettuosa e presente, che usava la distrazione piuttosto che la punizione come metodo educativo; una volta nato il secondo cucciolo, poi, Jane scoprì che la madre lo proteggeva dalla frenesia infantile del fratello maggiore per qualche anno, per poi consentire ai due piccoli di giocare tra loro una volta raggiunta l’età adeguata, e che il fratello maggiore curava anch’esso il fratellino e aiutava la madre a crescerlo.

Il primo articolo di Jane fu pubblicato nel 1963. Un anno dopo la Goodall ottenne, pur non essendo laureata, il dottorato in Etologia presso l’Università di Cambridge, e in seguitò tornò nel Gombe per costruire un centro di ricerca per giovani studenti. Qui rimase a lungo per coordinare gli studi sui suoi amati scimpanzé, ma dopo alcuni anni si rese conto, complice una poliomelite portata dall’uomo e trasmessa ad alcune comunità locali di primati che ella riuscì parzialmente a salvare, che l’azione umana stava devastando la fauna del continente da lei tanto amato. Decise così che doveva fare qualcosa, spiegare al mondo cosa aveva capito con i suoi viaggi e quali fossero le responsabilità umane nel preservare le meraviglie che aveva osservato.

Nel 1977 fondò il “Jane Goodall Institute”, un’organizzazione non-profit attiva anche in Italia, che promuove iniziative volte ad instaurare relazioni positive tra l’uomo, l’ambiente e gli animali.

Dopo la pubblicazione della sua opera scientifica “Il popolo degli scimpanzé” (di cui suggerisco caldamente la lettura), Jane interruppe il suo lavoro di ricercatrice per dedicarsi a diffondere la sua opinione sulla necessità di salvare la Terra e le specie che la abitano. I suoi obiettivi non si limitano ai primati, ma comprendono tutti gli esseri viventi indifesi, umani compresi. A tal proposito, l’homepage italiana della fondazione che porta il suo nome recita: “La tutela della biodiversità del mondo animale e vegetale non può prescindere dalla lotta alla povertà. Il degrado ambientale, infatti, è particolarmente grave nelle aree più povere del mondo, dove si ricorre intensivamente alle risorse naturali, senza una pianificazione sostenibile, per badare alla propria sopravvivenza quotidiana. Il Jane Goodall Institute è presente nella regione con progetti di conservazione, formazione, microcredito, educazione”.

Ciò che emerge di Jane, dal documentario della National Geographic (presente anche su Netflix) che la vede protagonista, è che secondo lei nessuna specie è migliore o peggiore, buona o cattiva, primitiva o moderna in senso assoluto, ma che tutto ciò che vive è ugualmente stupefacente e meritevole di rispetto, così come il pianeta che ci ospita:

“C’erano (nel Gombe, ndr) molti serpenti, alcuni velenosi. Tuttavia, ho sempre creduto che se fai attenzione quando cammini, se non li spaventi e non li calpesti, loro non ti faranno del male”;

“Scimpanzé, insetti, uccelli: formavano un unico insieme nella natura, ed ora anch’io ne facevo parte. Mi avvicinavo sempre di più agli animali, alla natura, e di conseguenza a me stessa. Ero in sintonia con quella grande forza spirituale che mi circondava”.

Per il suo lavoro Jane Goodall ha ricevuto anche la nomina a Messaggero della Pace delle Nazioni Unite, nel 2002. Il suo obiettivo è che l’umanità e soprattutto i più giovani entrino in azione per un maggior rispetto degli gli esseri viventi e della natura: con le sue scoperte e le sue parole, Jane ci ricorda che abbiamo il potere di fare la differenza, tutti noi; particolare importanza rivestono le nostre scelte quotidiane e i comportamenti che adottiamo verso il prossimo, di qualunque specie esso/a sia.

“Noi esseri umani siamo creature straordinarie: abbiamo evoluto un linguaggio e, con esso, la capacità di tramandare le nostre conoscenze alle generazioni successive, indagando l’universo e comunicando ai posteri scoperte ed errori da evitare. Siamo organismi con un intelletto raffinato; ma il modo in cui lo siamo diventati non è importante. L’evoluzione stessa non ha senso se non siamo capaci di fare grandi cose con ciò che siamo ora.  Il minimo che possiamo fare è preservare il mondo in cui viviamo e dare una voce a tutti coloro che non hanno la capacità di parlare per difendersi”.

Ecco perché è di primaria importanza evitare che le nostre (apparenti) incompatibilità politiche, economiche, biologiche e la diffidenza che istintivamente avvertiamo verso il prossimo ci dividano; in una situazione precaria come quella in cui versa la nostra epoca, risulta ancora più importante resistere alla tentazione di cedere al nostro egocentrismo, sempre in agguato, sforzandoci invece di seguire modelli positivi e agire come è giusto, non come è facile, in un clima di collaborazione e rispetto per ciò che ci circonda: è nostro dovere nei confronti della nostra e delle altre specie, da cui non siamo affatto distanti quanto crediamo. Ed è anche l’unico modo che abbiamo per continuare a coesistere su questo prezioso pianeta.

“Non puoi evitare di trascorrere un solo giorno senza avere un impatto sul mondo intorno a te. Le tue azioni possono fare la differenza, e perciò devi decidere quale tipo di differenza vuoi rappresentare”.

Lo ripetono in tanti in questo periodo, a mo’ di giustificazione: “l’azione di una sola persona non basta”; ma questo non significa che non serva. Tutto ciò che facciamo può cambiare le carte in tavola, e poter essere, grazie alla nostra raffinata fisiologia e al nostro percorso evolutivo, pienamente consapevoli di ciò, ci dà un’enorme responsabilità nei confronti del mondo in cui viviamo. Non possiamo fare finta di niente.

Parlare dell’Amazzonia che brucia e della fauna che muore, se non si va materialmente a spegnere il fuoco, non basta: ma se tutti mangeremo meno carne, specialmente quella importata dal Sud America o venduta dai fast food più noti, parlarne sarà servito (anche alla nostra salute).

Greta Thunberg e le sue proteste non bastano: ma se tutti useremo un po’ meno l’aereo o la macchina, un po’ più l’autobus e la bicicletta, anche i discorsi di Greta Thunberg e di tanti altri come lei saranno serviti.

Ridurre la plastica, usare la borraccia all’università, produrre meno rifiuti, pulire i boschi e raccogliere i mozziconi di sigarette trovati in spiaggia, raccogliere meno conchiglie e rispettare animali piccoli e grandi, niente di tutto ciò basta: ma se tutti smetteranno di comprare bottigliette di plastica, puliranno ogni estate un piccolo pezzetto della loro spiaggia di fiducia e ridurranno in tanti altri modi il proprio impatto, tra 10, 50, 100 anni qualcosa sarà cambiato. E sì, probabilmente avremo anche preservato un certo numero di specie dall’estinzione.

Tutti noi abbiamo un impatto sulle creature e l’ambiente che ci circondano, positivo o negativo, a seconda di come ci relazioniamo con le altre specie viventi e il nostro habitat: certo, è un contributo minuscolo, ma non per questo nullo. Ecco perché la somma di tante microscopiche azioni positive ci può salvare, mentre la somma di altrettanti comportamenti negativi ci può distruggere. Sta a noi scegliere gli addendi.

D’altra parte, se la Storia e la Scienza ci hanno insegnato qualcosa, è che forse un solo essere vivente, un uomo, un animale, una pianta, un microrganismo isolato può davvero poco, in questo vasto mondo; ma agendo all’unisono, gli esseri viventi sono in grado di rivoluzionare in sinergia il proprio ambiente e il proprio tempo, in modi spesso inimmaginabili.

 

Martina Suraci, Scienze Biologiche (DSV)

 

 

Fonti:

  1. “Jane Goodall, how a woman redefined mankind” by Karen Karbo on National Geographic Culture (nationalgeographic.com)
  2. “Jane Goodall – Una vita accanto agli scimpanzé” by lacapannadelsilenzio (lacapannadelsilenzio.it)
  3. Jane – docufilm by Brett Morgen (National Geographic, 2017) – Netflix
  4. Jane Goodall Institute Italia website (janegoodall.it)
  5. “La mia vita con gli scimpanzé. Una storia dalla parte degli animali” book by Jane Goodall.

 

 

 

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