Nessuno vuole pagare Il fallimento della cooperazione internazionale nel fermare il cambiamento climatico

 

 

Il nostro mondo è in pericolo, su questo non c’è dubbio.

L’umanità ha davanti a sé una sfida grandissima che potrebbe seriamente mettere a rischio la vita di molti individui, nonché i loro mezzi di sussistenza e più in generale potrebbe cancellare gli effetti di molte delle conquiste della nostra specie negli ultimi secoli.

Eppure, nonostante questo siamo ancora essenzialmente al punto di partenza. Ben pochi sono stati i progressi compiuti negli ultimi decenni nel contrasto al cambiamento climatico e sono state soprattutto iniziative di singoli governi, scoordinate fra loro. A livello internazionale si sono fatti molti proclami, ma ci sono stati pochi fatti concreti.

Considerando la recente nascita del movimento “Fridaysforfuture”, ritengo che sia interessante esaminare le cause di questo apparente paradosso e magari di dare alcuni consigli su come gli attivisti possano effettivamente alterare queste dinamiche, o quantomeno provarci.

A tal proposito, ritengo utile il seguente esempio. Immaginate che in una capitale medioevale il re faccia la seguente proposta ai suoi sudditi:

“C’è necessità di contribuire alla difesa della città da un gruppo di saccheggiatori, però dovranno essere i cittadini a decidere, individualmente, quanto ciascuno di loro contribuirà. Il re ripone molta fiducia nel senso civico dei propri sudditi ed è sicuro che tutti sceglieranno di contribuire volontariamente alla difesa della città.”

Agli abitanti sono poi offerte due opzioni:

– non pagare alcuna tassa, ma con la consapevolezza che se una certa percentuale di abitanti non pagherà, la città sarà razziata è distrutta;

– pagare la tassa, con la consapevolezza che potrebbe comunque non servire a nulla, se una buona percentuale non contribuirà allo stesso modo.

A questo punto si formeranno diverse fazioni. Un gruppo di poveri riterrà di essere moralmente giustificato a non contribuire perché, in fin dai conti, è giusto che siano gli aristocratici a pagare la difesa della città. Un altro gruppo, molto più vasto del primo, sarà composto invece da quelle persone che riterranno molto intelligente non contribuire perché tutto sommato è probabile che riescano ad ottenere sia la difesa della città sia di non pagare la tassa. Un ultimo insieme infine sarà composto da persone influenti che sarebbero danneggiate dall’espansione della guardia cittadina perché gli sottrarrebbe molta forza lavoro.

Il risultato finale è che saranno in pochi a contribuire e alla fine la città verrà distrutta nonostante fosse nell’interesse di tutti evitare questo scenario.

Questa situazione ha molte similarità con la discussione del cambiamento climatico negli ultimi anni e credo sia un problema molto sottovalutato da chi si impegna nella, ovviamente buona e giusta, lotta al cambiamento climatico. Eppure, non serve una ricerca molto lunga per vedere che la discussione attorno al recente movimento a difesa dell’ambiente si concentra molto sui costi della salvaguardia dell’ambiente ed in particolare su chi dovrà accollarseli.

Ovviamente, agli attivisti questo appare come un ragionamento insensato: di sicuro chiunque considererebbe il costo di una minore crescita preferibile alle conseguenze catastrofiche del cambiamento climatico. Ma questo ragionamento non tiene conto di importanti fattori nel comportamento umano, ben evidenziati dall’esempio descritto all’inizio.

In particolare, sono tre le questioni che andrebbero considerate con molta attenzione:

– l’equità nella divisione dei costi derivanti dal contrasto al cambiamento climatico;

– il problema dei furbetti che ritengono di poter raccogliere i frutti del lavoro altrui;

– l’opposizione di alcuni gruppi di interesse che temono di essere colpiti duramente dalle politiche volte a salvaguardare il clima (che è però collegata strettamente alle prime due)

Queste considerazioni sono estremamente rilevanti nel contesto internazionale di contrasto al cambiamento climatico.

Molti paesi in via di svilupo si rivedono dell’idea secondo la quale il loro impegno verso il cambiamento climatico dovrebbe essere commisurato a quello dei paesi sviluppati, per la semplice ragione che in passato sono stati questi ultimi a beneficiare a discapito del pianeta (anche se all’epoca ovviamente nessuno sapeva ancora del cambiamento climatico, ma i paesi industrializzati ne beneficiarono ugualmente).

Questioni di equità di questo tipo possono completamente paralizzare la cooperazione, sia tra persone sia tra stati.

Infatti, questa è forse la più significativa critica che è stata mossa al recente movimento ambientalista, ossia di trascurare gli effetti che una forte riduzione delle emissioni di CO2 avrebbe sull’economia dei paesi più poveri. Curiosamente questa situazione è essenzialmente analoga ad un altro avvenimento politico recente: l’introduzione di una tassa sul gasolio in Francia che come molti di noi si ricorderanno fu la causa scatenante della rivolta dei cosiddetti Gilet gialli nel paese. Quei protestanti erano forse particolarmente opposti allo sforzo di ridurre l’impatto umano sull’ambiente? Realisticamente è molto più probabile che non ritenessero giusto di dover essere loro a pagare. Insomma, era per loro una questione di giustizia.

Questo problema, come detto, è solo una parte delle avversità che si pongono davanti alla cooperazione internazionale, infatti è probabilmente meno significativo rispetto agli altri due; il desiderio di alcuni paesi di arricchirsi a discapito degli altri e gli interessi di certi gruppi di interesse.

Purtroppo, è un istinto umano quello di lasciare agli altri i costi e i sacrifici per poi intascarsi i benefici e la lotta al climate change offre una possibilità irripetibile per chi vuole appropriarsi dei risultati di sforzi altrui. Tutti hanno l’interesse a dare l’impressione di essere impegnati nel perseguire un obiettivo comune ma non a farlo per davvero.

I governi dei vari paesi hanno un evidente interesse ad evitare di sobbarcarsi impegni troppo onerosi per la propria popolazione, i quali potrebbero essere poco popolari nei loro poiché poi avrebbero comunque tutti gli effetti benefici degli sforzi di altri paesi. L’analogia tra questa situazione e quella descritta dai furbetti nell’esempio iniziale è evidente, così come è ovvio il problema intrinseco in questa logica: in entrambi i casi il risultato finale è negativo per tutti. Ma dato che tutti ritenevano di poter sfruttare la situazione a proprio vantaggio, alla fine ci hanno perso.

L’ultimo punto da analizzare è probabilmente il più subdolo, ossia quello che riguarda i gruppi di interesse, come per esempio le società che si occupano di estrazione del petrolio le quali esercitano una pressione indebita al fine di promuovere il proprio benessere a discapito di quello dl resto del mondo. Ritengo che sia il più subdolo perché è un’influenza molto meno visibile rispetto alle altre eppure è fondamentale nel capire il più grande fallimento recente nello sforzo internazionale contro il cambiamento climatico.

Nel 2015, ben 195 si riunirono a Parigi per firmare i famosi accordi che prendono il nome dalla capitale francese. Questi accordi sono molto blandi e poco ambiziosi ma la lista dei paesi comprendeva (cosa molto significativa) gli Stati Uniti, un paese che è sempre stato restio a fare la sua parte in questo contesto. Nonostante ciò nel 2017 gli States furono il primo e con un po’ di fortuna l’ultimo, paese a chiedere l’uscita dagli accordi. Cosa molto significativa se si considera che sono la prima potenza economica globale ed esercitano una fortissima influenza politica sul resto dl mondo.

Gli Sati Uniti purtroppo hanno gruppi di interesse molto potenti legati al settore petrolifero (e affini) che esercitano una grossa influenza sulle decisioni dei politici e non ritengo sia un’esagerazione dire che questo sia l’ostacolo principale al realizzare politiche volte a contenere il cambiamento climatico. La partecipazione del colosso americano è però necessario, del resto un paese tanto importante non può rimanere fuori da un accordo senza che vi siano conseguenze. Del resto, perché il Sudafrica dovrebbe rispettare gli accordi sul clima se gli Stati Uniti non lo fanno?

E ovviamente lo stesso ragionamento si può estendere ai paesi sviluppati: perché far soffrire i propri cittadini a beneficio di quelli americani?

Tutti questi problemi che ho elencato sono profondamente collegati.

In conclusione, l’unico modo possibile per superare questa paralisi passa necessariamente dal cambiare strategia su tre temi fondamentali:

– serve un programma chiaro. Nel senso di idee e proposte tangibili. Questo è un prerequisito inderogabile.

– bisogna cercare di perseguire una politica ambientale che tenga conto della distribuzione dei costi, soprattutto tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati ma anche all’interno dei vari paesi. Questo è necessario per evitare che la proposta incontri forti opposizioni politiche sulla base di una distribuzione ingiusta dei costi;

– bisogna mettere una pressione sempre maggiore sui governi. Specialmente quelli dei paesi più importanti e refrattari come gli USA. Solo così l’ambientalismo diventerà una priorità nel dibattito politico. In Europa questo obiettivo è gia stato in parte realizzato, ma negli USA e nel resto del mondo il successo è stato meno eclatante.

Non vedo altre soluzioni per il nostro futuro se non lo sperare in qualche miracoloso avanzamento tecnologico ma, francamente, io non ho voglia di rischiare una catastrofe per quella che potrebbe essere un’utopia.

 

Massimiliano Montorsi

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