HONG KONG VERSUS CHINA

HONG KONG VERSUS CHINAIl 2019 è stato l’anno della consapevolezza del cambiamento climatico, della crisi di governo, dei nuovi scenari sulla Brexit. Tutte notizie di assoluta importanza ma non è solo questo che dovrebbe fare notizia. Tuttavia, è la cronaca che interessa all’uomo occidentale: l’uomo bianco, l’uomo libero, l’uomo privilegiato.

Interessano i dati, l’andamento di borsa, è un mondo di denaro e cifre e dunque sarebbe bene allora cominciare dai numeri: 31 Marzo 2019, una delle più importanti e controverse dell’epoca contemporanea, il braccio di ferro tra Hong Kong e la Cina.

La prima domanda sorge spontanea: Hong Kong non fa parte della Cina?

Risulta necessaria qualche pillola di storia. Hong Kong divenne una colonia dell’impero britannico a seguito della “Guerra dell’Oppio” nel XIX secolo ed è stata ceduta alla Cina solo in tempi recentissimi, si parla del 1997.

La Gran Bretagna in un processo di colonizzazione durato 99 anni ha pian piano trasformato la città nella “Londra D’Oriente” garantendole, anche dopo il passaggio in mani cinesi, una vastissima autonomia per esempio per quanto riguarda i sistemi amministrativo, economico e giudiziario. Questo tipo di sistema, chiamato “One country two systems”, ha permesso agli Hongkonghesi di vivere in maniera libera e democratica al contrario di quanto accade in Cina.

Anche il fiore più bello è destinato però ad appassire. Il regime speciale che gli inglesi sono riusciti a garantire per Hong Kong ha una scadenza datata 2047: i cinesi però hanno da subito chiarito con i fatti che non è loro intenzione aspettare, e hanno da anni iniziato un opera d i“cinesizzazione” di Hong Kong, ovviamente questo a scapito delle libertà individuali dei cittadini; all’ennesimo atto di repressione gli Hongkonghesi però sono insorti.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’imposizione da parte della Cina di una legge di estradizione secondo la quale un abitante di Hong Kong può essere deportato in Cina per essere processato.

Ma dov’è il problema? Il problema risiede nel fatto che il sistema giudiziario cinese risulta essere uno dei più iniqui al mondo: l’idea del giusto processo è un’utopia, vi sono torture per estorcere confessioni al passo con il medioevo, totale assenza delle libertà fondamentali delle quali qualsiasi essere umano dovrebbe godere.

I giovani non ci stanno e da settimane, spalleggiati da donne e uomini di ogni età, invadono le strade protestando in maniera pacifica per raggiungere un traguardo che per gli occidentali non è altro che normalità: la democrazia.

Ogni giorno un ragazzo hongkonghese si sveglia e sa che dovrà combattere contro tear gas, esser marchiato da water cannons di colore blu per esser riconosciuto come rivoltoso, fuggire dalle percosse della polizia e quindi dal carcere, manifestare mascherato per non esser riconosciuto.

La Cina in tutto ciò batte il pugno: vieta le manifestazioni etichettandole come “non autorizzate”, proibisce ai manifestanti di esser mascherati così potranno esser incarcerati più facilmente, li blocca all’interno delle metropolitane e li percuote nonostante siano disarmati.

La magnificenza della protesta, però, sta nel fatto che oltre ad essere pacifica e pregna di simboli non violenti come gli ombrelli, è stata trasformata dai ragazzi in una vera e propria forma d’arte: un’intera orchestra ha occupato le vie di Hong Kong poco più di tre settimane fa.

Trascorsi dei mesi dall’inizio della ribellione e data la situazione, il governo cinese ha dovuto però allentare la morsa decidendo di concedere la rimozione della legge sull’estradizione per Hong Kong: i manifestanti non si sono tuttavia fermati e continuano a chiedere la scarcerazione dei compagni catturati, l’apertura di inchieste sulle brutalità commesse dalla polizia e un sistema elettorale democratico ( i cittadini di Hong Kong possono votare solo una parte del loro parlamento) ed infine la rimozione dell’appellativo “rivoltosi” in riferimento ai manifestanti.

L’arma più potente che la Cina sta utilizzando non è però la violenza ma la censura: una volta varcato il confine cinese l’informazione muore. Gli hongkonghesi sanno perciò che da soli non potranno vincere. In occasione della celebrazione dei 70 anni della Cina, mentre a Pechino sfilava l’intero armamento militare, ad Hong Kong sfilava la gente: in una giornata così importante i giovani hanno manifestato sventolando le bandiere di tutti i paesi del mondo per chiedere sostegno internazionale, poiché è l’isolamento il vero nemico contro cui sanno di dover difendersi.

Così mentre da un lato “Amnesty international” accoglie il loro appello, dall’altro la Cina acquista un’intera pagina dei più importanti giornali di ogni nazione del mondo (“Sole 24 ore”, “Financial times” per citarne alcuni) dichiarando che tutto è a posto e che le proteste sono solo una piccola fase che il governo cinese supererà facilmente: intanto almeno quattro giovanissimi hongkonghesi si sono suicidati e un diciottenne è stato volontariamente colpito da un proiettile a un metro di distanza.

La popolazione europea però risponde: Londra insorge con una catena umana sul London Bridge, Milano fa sentire la sua vicinanza (il 12 ottobre si è tenuto un sit in per manifestare la solidarietà della città) e Berlino informa i suoi cittadini con stand allestiti accanto alla porta di Brandeburgo.

Hong Kong finalmente non è sola, anche se probabilmente non basterà. Le manifestazioni per la libertà ci ricordano che quest’ultima non è data ma frutto dell’impegno di chi prima di noi si è battuto contro un regime oppressivo e iniquo: coloro i quali dovessero rimpiangerlo sguazzano invece dell’egoismo dell’oppressore, senza pensare che potrebbero invece trovarsi dalla parte dell’oppresso.

La libertà gode di una primazia indiretta e debole: non è superiore ad altri valori, ma permette la loro esistenza nonostante questi siano ostili ad essa stessa.

Hong Kong lo sa, Hong Kong ci crede, noi non dovremmo dimenticarlo.

Free Hong Kong.

 

Rossana Cea

 

 

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