La dialettica del tempo pasquale tra celebrazione e consumismo

 

L’etimologia della parola “Pasqua”, come a molti sarà ben noto, deriva il suo significato dall’espressione letterale “passare oltre”. È chiaro come questa solennità ebraica e poi cristiana simboleggi quindi una condizione di passaggio: per i primi il passaggio da una condizione di schiavitù, sotto la dominazione egizia, ad una condizione di liberazione e di conseguente libertà; nel secondo caso ci si richiama invece ad uno stato di transizione tra la vita e la morte in riferimento alla figura di Gesù Cristo.

A differenza del Natale, che si instaura su di una preesistente ricorrenza pagana, questa festività nasce primariamente come religiosa. Sarà quindi più difficile che si venga a creare una sovrapposizione tra dimensione religiosa e non, potremmo definirla in un certo senso fattuale. Purtroppo anche per Pasqua si deve constatare che diverse pratiche a sfondo consumistico, insieme ad altri importanti fattori (tempo ad esempio), abbiano fatto sì che per molti credenti si sia perso di vista il vero significato per cui si fa memoria e si gioisce. Attenzione, non si sta dicendo che questo periodo di festa e celebrazioni si sia svuotato completamente di senso; tuttavia bisogna ammettere che ormai pochi, in questo caso possiamo parlare di credenti e non credenti, diano degna considerazione a ciò che la Pasqua vuol trasmettere tramite riti, celebrazioni e così via. In questo senso, infatti, anche una persona che non si considera seguace della religione ebraica o cristiana non può esimersi dal porsi domande di senso su quella che è considerata la maggiore ricorrenza religiosa dell’anno solare.

Per analizzare, seppur in maniera sintetica, il quadro generale entro cui si innesta l’essenza di questo “stato”, di questa “condizione di passaggio”, ci si aiuterà con qualche piccolo apporto filosofico e teologico. Teologicamente parlando si può infatti affermare che le festività religiose hanno origine nella dialettica tra tempo sacro e tempo profano in quanto esse non possono coesistere nella stessa unità di tempo. Troppo spesso però, come già rilevato, accade che nel calendario civile le festività tendono a scadere passando da “feste” a “vacanze”: vale a dire da giorni di semplice sospensione del lavoro: la dialettica tra tempo profano e tempo sacro diventa mera dialettica tra tempo “lavorativo” e tempo “di riposo”. Molti teologi appaiono concordi sul fatto che la festa rientri nel discorso culturale nel momento in cui essa scompare all’orizzonte quotidiano, eliminando in tal modo ogni prerogativa che per essa funge da base di riferimento. L’uomo diviene in tal modo sottomesso alla temporalità, che peraltro esso stesso produce e distorce nella sua logica iniziale.

Richiamandosi ora alla filosofia di Hegel possiamo esprimere il movimento dialettico temporale tra il tempo sacro e il tempo profano. Ora la nostra tesi diventa l’affermazione e la celebrazione della festività religiosa nelle sue varie interpretazioni – che siano la liberazione dalla schiavitù o la resurrezione della carne. Passando poi all’antitesi definiamo come concetto limitato e finito il tempo che prima è stato considerato lavorativo e in cui si sostanzia la maggior parte della nostra esistenza. Infine, la nostra ri-affermazione – Aufhenbung, come diceva Hegel stesso – consisterà nella negazione della nostra attuale negazione (l’antitesi per intenderci) e quindi richiamandoci ad una nuova affermazione della nostra tesi che, per affermarsi, non può prescindere dalla sua stessa negazione. In questa visione conflittuale ma allo stesso tempo complementare si rileva l’importanza sia del tempo sacro che di quello profano come entrambi reciprocamente fondamentali per la loro stessa affermazione.

Ora si può finalmente celebrare con chiarezza la liberazione in favore della schiavitù e la vita in favore della morte, ma che essa pur sempre non esclude. Non a caso il simbolo pasquale cristiano principale è l’uovo: dal quale proviene la vita ma che a sua volta è derivato dalla vita stessa. Facendosi aiutare da Durkheim possiamo dire che <<il ruolo della collettività è essenziale, ma ciò non significa rilevare la struttura riflessiva della festa come assoluta […] La collettività diventa il soggetto stesso della festa>>.

Seppur sia ormai chiaro quanto sia elevata la profondità del messaggio di cui è portatrice la festività della Pasqua l’ombra del consumismo continua a protrarsi di anno in anno dando luogo addirittura a festeggiamenti quali l’Easter Egg Roll – la corsa con le uova bollite risalente alla Washington dell’Ottocento – ma anche all’ormai diffusa pratica di regalare uova di cioccolato ad amici e parenti – in questo caso l’oggetto donato è specifico e non variabile come per Natale – o alle grandi grigliate con gli amici del giorno di Pasquetta: tutto organizzato ad hoc come bel pretesto per allontanarsi e alienarsi da questa, oserei dire, lodevole ricorrenza il quale oggetto di celebrazione siamo, come rileva Durkheim, tutti noi. Ma forse non bisogna nemmeno “fasciarsi così tanto la testa” (passatemi il termine poco formale), considerando che al tempo anche Hegel, mentre parla di religione come seconda forma dello spirito assoluto dichiara di come essa si sviluppi sotto forma di una rappresentazione che procede (direi, forse, purtroppo) in modo a-dialettico; intendendo in tal modo le proprie determinazioni quasi fossero reciprocamente indipendenti; quando si è appena sopra notato di come esse siano invece reciprocamente complementari. Nel dubbio comunque, gare con le uova e grigliate con abbondanza di alcool e carne…

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