Il fenomeno #INSTAPOETRY: la poesia ai tempi di Instagram

 

Premetto un disclaimer: chi scrive quest’articolo non ha la pretesa e soprattutto non sarebbe in grado di trattare l’argomento in modo serio, vale a dire oggettivo, sistematico e possibilmente scientifico. Ma è questo il punto: a chi interesserebbe davvero leggere una lambiccata e puntualissima analisi di quel fenomeno fisiologicamente poco noto che è l“instapoetry”? Non alla maggior parte dei potenziali lettori, ho ragione di credere. Dopo aver condotto un sondaggio sommario attenendomi ai criteri di cui sopra (ovvero chiedendo in giro a due tre persone a caso, tanto per confermare la mia tesi di partenza), sono difatti giunta alla seguente verità: in pochi sanno dell’esistenza del fenomeno della poesia su Instagram, e anche quei pochi che ne sono al corrente non si dimostrano eccessivamente entusiasti all’idea di approfondire la tematica. Meno male allora che ad occuparsene in questo articolo non sarà un qualche studioso designato ratione materiae, ma la sottoscritta, che può candidamente garantire il giusto coefficiente di pigra superficialità e di generica incompetenza. I maligni e i prevenuti diranno che per le opere in questione un tale critico è perfettamente adeguato: se non altro, ci accomuna il dilettantismo. Ma forse è meglio, per ora, non affrettare il giudizio, e pensare che ciò che condividiamo è invece l’amore per la poesia… Un amore non sempre ricambiato, purtroppo, ma lo sappiamo tutti: se Beatrice non avesse fatto la difficile con il Sommo Poeta, probabilmente noi oggi non saremmo qui a rimpiangerlo.

Sveliamo dunque il mistero: che cos’è l’”instapoetry”?

Prevedibilmente, è proprio la poesia prodotta dal popolo poetante di Instagram. Allitterazioni a parte, l’instapoetry è la poesia dei cosiddetti “instapoets”. Il neologismo “instapoet” è definito dal sito www.treccani.it come “chi pubblica i propri componimenti poetici, di solito brevi e accompagnati da immagini, nei siti di relazione sociale in Rete, in particolare Instagram.”

Alcuni di questi figuri, dopo un periodo di gavetta più o meno lungo passato ad editare, autopubblicare e promuovere i propri scritti nel format quadrato tipico della piattaforma, ma anche servendosi di altri siti (Rupi Kaur, per esempio, nacque su Tumblr) e di blog personali, sono riusciti a “sfondare”, arrivando al sospirato traguardo della pubblicazione cartacea: sono poche eccezioni gli instapoeti che “ce l’hanno fatta”, ed è di loro che probabilmente l’uomo della strada ha letto o sentito parlare. Va detto però che per molti l’attività digitale non è bastata per raggiungere il successo, e si sono misurati in parallelo anche con il “mondo reale” (il confine è labile, ma ancora persiste), tenendo reading delle proprie poesie e talvolta partecipando a tornei di poetry slam (competizioni fra poeti nate dalla strada, che si svolgono in luoghi pubblici e prevedono l’inappuntabile usanza di premiare ogni partecipante offrendogli un bicchiere alla fine della performance).

Nessuno di loro ha però abbandonato i social dopo la fama, anzi. La già citata Rupi Kaur, divenuta in un certo senso portabandiera globale degli instapoeti grazie alla sua raccolta di poesie “Milk and honey” – che ha venduto più di due milioni e mezzo di copie ed è stata tradotta in 25 lingue – non ha mai smesso di curare e aggiornare il proprio profilo su Instagram, che conta ormai 3,5 milioni di follower e totalizza in media 200mila likes per ogni nuovo post pubblicato.

Si tratta di numeri che possono esaltare o, al contrario, amareggiare, in base all’opinione che si ha del fenomeno. La poesia di Kaur è veramente popolare, e sembra accogliere le istanze emotive, sociali e a tratti anche politiche di un pubblico internazionale prevalentemente femminile, raccontando in parole semplici e rarefatte, senza uso di metrica, maiuscole o punteggiatura, i sentimenti e i pensieri delle donne di ogni età e nazionalità che nell’opera della poetessa si identificano. Gli elementari disegni simili a scarabocchi che miniano i post della Kaur fanno da eco ai suoi componimenti, vivacizzando lo spazio bianco attorno alla manciata di versi che, data la loro immediatezza, non avrebbero altrimenti bisogno della parafrasi di un’illustrazione.

Ma senza spingerci oltreoceano o valicare i confini nazionali, anche l’Italia (o meglio, la lingua italiana) ha saputo dare i suoi frutti nel campo della poesia diffusa attraverso Instagram. Nomi famosi sono quelli di Guido Catalano, di Gio Evan e del modenese Francesco Sole.

Potreste aver letto il nome del primo sulla copertina di uno dei suoi libri che è facile intercettare in qualsiasi libreria: Sono un poeta, cara, Ti amo ma posso spiegarti, Piuttosto che morire m’ammazzo, Ogni volta che mi baci muore un nazista, e così via.

La poesia di Gio Evan, forse suo malgrado (ma ho la sensazione che Oscar Wilde non ci scommetterebbe un penny), è stata portata all’attenzione generale da Elisa Isoardi, che ha citato il poeta (chè è anche scrittore, cantautore, umorista e performer) nella didascalia della sua chiacchieratissima foto postata su Instagram a conferma della fine della relazione tra la conduttrice e l’attuale ministro dell’interno. “Non è quello che si siamo dati a mancarmi, ma quello che avremmo dovuto darci ancora”. Sublime, no?

Invece per dare un’idea del calibro della scrittura di Francesco Sole basterà riportare i titoli di due dei suoi bestseller: Ti voglio bene – #poesie (2017) e Ti amo (2018). Titoli universali, da veri insta(nt) classics, non c’è che dire.

I numeri che possono vantare gli instapoeti nostrani sono innegabilmente meno impressionanti di quelli della Kaur, ma non irrisori: Gio Evan è vicino a raggiungere il traguardo dei 500mila followers su Instagram, e la media dei likes per ogni suo post orbita attorno ai 20mila.

Ma fin qui s’è parlato di celebrità, di casi straordinari di artisti che sono andati ben oltre la semplice pubblicazione dei propri componimenti poetici su Instagram, spesso affiancando o sovrapponendo all’attività che propriamente qualifica un instapoet altre e non di rado più importanti attività, aventi a che fare ora con la musica, ora con la televisione, ora con la live performance e il cabaret da osteria.

Io credo però che gli autentici instapoets li si debba andare a scovare altrove, ben lontani dalle pagine dei giornali e dai palinsesti Rai. Sono la maggioranza che formicola sommersa, che cresce e non smette di crescere nel ventre inesauribile social network, una moltitudine che produce un vasto e vario campionario di esperimenti poetici, ognuno dei quali digitato, filtrato, taggato e incasellato nel suo bravo riquadro va occupare l’esatto spazio che occupano tutti gli altri.

Metà del sèguito di queste piccole imprese poetiche è dovuto a parenti e amici; l’altra metà è composta dalla concorrenza, che a questo stadio si mostra perlopiù amichevole e incoraggiante, alla peggio indifferente.

E’ l’indifferenza il vero nemico da abbattere: perchè la poesia, anche quella stentata e implume di questi improbabili aedi, non vuole perdersi nel silenzio, ma vuole raggiungere l’altro, trapelare oltre lo schermo, prendere all’amo costi quel che costi un cuore o un cervello affine impigliato anche lui nella rete a strascico del Web (l’altra opzione sarebbe fare appello al WWF, ma, alas, siamo esseri umani).

Per quanto condiscendente possa suonare, credo che fare delle fatiche di questi instapoeti ignoti il bersaglio di una satira sarebbe fin troppo facile, ed anzi sarebbe indice di un atteggiamento difensivo nei loro confronti. In realtà non fanno del male a nessuno. Non sono loro il “tracollo culturale”, nè mi risulta che la loro produzione sia ormai stata autenticata come la Letteratura ufficiale dei nostri tempi.

Più tragicomico è lo spettacolo di chi, animato certamente da nobili convinzioni, si compiace di stroncare alberelli ancora verdi e senza corteccia, e poi, posata la scure, si lamenta della desertificazione del paesaggio culturale circostante. Ma questi sono problemi dei tempi, e non solo dei nostri…

L’adagio popolare dice che la foresta cresce in silenzio, nascosta, senza attirare l’attenzione. E se fra gli instapoeti ce ne fosse qualcuno che si sta preparando a svettare sugli altri, un giorno, in modo del tutto inaspettato? Per esempio non molto tempo fa sono incappata nel profilo di uno di loro che di username fa “zambongiulio”, nella cui bio si legge: “poeta e discontologo”. Questo autoproclamato “poeta da supermercato” alterna sul suo profilo post contenenti poesie (nero su bianco in un font standard, zero fronzoli, austero come una crisi finanziaria) e fotografie scattate da lui, assolutamente disarmanti per il loro ordinario squallore (mi ricordano quelle di Humans of Late Capitalism, un altro profilo Instagram suppergiù a tema: “paradossi e nonsensi del mondo globalizzato in cui viviamo”). Nelle sue poesie Giulio non segue le regole della metrica classica, non sviluppa un arco logico che permetta di “decifrare” la poesia come un mito o un simbolo, non si preoccupa di ricercare termini raffinati o giochi di parole accattivanti. Ma per questo suo disinteresse per le forme tradizionali non si distinguerebbe certo da tanti altri; invece è originale perchè sviluppa un proprio stile, si occupa di determinati temi, esprime idee che ricorrono nei suoi componimenti e che gli danno una fisionomia propositiva, quasi impegnata. Parla di frequente di barboni, prostitute, anoressiche, ma lo fa accarezzando la superficie, senza scandalo o giudizio; si confronta con il vizio, non apostrofa il peccatore, e invece di condanne morali distribuisce ai senzatetto lattine di pepsi. Per un periodo si è dato la “missione poetica” di amare il consumismo: “leggetemi e consumatemi”, esordisce una delle sue poesie. In un’altra spiega che la “discountologia” è una disciplina da lui fondata che “dice grazie alle ansie del consumo”; in un’altra invece schizza “la morte di una senzatetto anoressica a Dublino”, concludendola con i versi: “E il marciapiede ti fa / da bara / le daygum protex masticate, / da gigli”.

Per quel che può valere l’opinione di un’incompetente come la sottoscritta (ma Giulio ribatterebbe che nel nostro mondo l’unica opinione che conta è quella del consumatore, categoria universale come poche), incontrare la poesia del poeta da supermercato è stato un arricchimento e soprattutto una sorpresa che da sola è bastata a farmi ricredere sull’intero fenomeno dell’#instapoetry.

C’è del buono, quindi. Certo che per trovarlo occorrono ingenti scorte di pazienza. E ottimismo. E non può nuocere anche un pollice opponibile collegato a un sistema nervoso funzionante – così da congedare con un unico ed elegante swipe up i post che magnificano frasi da baci Perugina quasi fossero frammenti di Saffo inediti riemersi dopo millenni.

Quella che segue è una breve intervista a Simone Messina, un instapoeta (benchè riluttante) che dato che frequenta la nostra Università qualcuno dei lettori avrà la fortuna di conoscere.

Simone ha generosamente risposto a due mie domande ed acconsentito alla pubblicazione di un suo componimento su lo Strillone.

L: Simone, che cosa pensi della poesia su Instagram?

S: Instagram puó essere considerato come un contenitore artistico in generale, quindi anche per la poesia. Infatti grazie ad esso e alla sua facilità di diffusione si sta riscoprendo molto la poesia. Questo è molto buono, perché permette a molti pseudo poeti di poter diffondere facilmente la loro forma d’arte. Secondo me però c’è un problema di fondo, ovvero benché la poesia grazie a questo mezzo si stia diffondendo notevolmente, manca più che altro la qualità della poesia. Secondo me si trova molta pseudo poesia, ma poca poesia reale.

L: Cosa ti spinge, personalmente, a pubblicare le tue poesie su Instagram?

S: Non mi definisco uno che scrive poesie, più che altro una persona che scrive i suoi pensieri. Amo scrivere e lo faccio da quando sono piccolo, non ho mai pubblicato più che altro per paura del giudizio, da un anno però ho deciso di pubblicare i miei pensieri o “poesie” prima sulla mia pagina personale e poi da un mese a questa parte  ho deciso di fare una pagina pubblica ( simonesword ) più per piacere personale e anche  per capire se quello che sento è una cosa che mi accomuna anche con altra gente o sono solo pensieri miei. Quindi se volete scoprirlo andare a visitare la pagina.

 

Lucia Bezzetto

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