“Figli di papà”: un’avversità precostituita

Chi mai nella propria quotidianità non è venuto in contatto con i così detti “figli di papà”, espressione gergale con la quale indichiamo qualsiasi persona che, grazie alle “finanze” dei genitori o alla loro stessa posizione sociale, può permettersi una vita fatta di puro desiderio, non disponendo affatto di alcun freno inibitore che gli possa mostrare la propria essenziale bassezza. La vita all’insegna della ricchezza tuttavia è un sogno che bene o male tutti hanno abbracciato e che chiunque, se ne avesse la possibilità, intraprenderebbe senza porsi etica-mente molti problemi. Per addentrarsi in maniera più chiara nella questione si deve prendere in esame il concetto di ostentazione.
Si conoscono sicuramente amici o persone che pur avendo la possibilità di esprimere in svariate modalità i loro “orizzonti” finanziari fanno di tutto perché tali dati rimangano nell’ombra mostrandosi altresì sotto una veste che definiremmo di “superiorità”. L’uomo infatti nella sua storia ha cercato sempre di mostrarsi superiore nei confronti del prossimo e l’esempio fino ad ora analizzato potrebbe essere la propagazione “rielaborata” nel tempo di quel “darwinismo sociale” con cui Spencer, applicando a livello della società gli studi del biologo britannico, rivelava che in qualsiasi comunità l’agire umano era regolato al proprio interno dalla dinamica “lotta per la sopravvivenza” dove chiunque non fosse rimasto al passo con gli altri simili sarebbe stato costretto alla subordinazione.
Trasportando questa rappresentazione ai giorni odierni diventa possibile impiegare tale sostrato filosofico per metaforizzare il tema dell’ostentazione: in un mondo in cui l’individuo raramente è considerato per le proprie abilità ma per l’immagine di cui esso è garante, immagine che, talvolta, pervasa da una sfumatura religiosa, si avvicina di gran lunga a un’icona, chi non riesce a manifestarsi nella propria spettacolarità viene “scartato” dallo sguardo comune per lasciare lo spazio sul palcoscenico del momento, a chi sa invece adattarsi alle tendenze. Ostentazione come epifania del proprio Io che, grazie alle reti tecnologiche dei social web, garantisce quella notorietà di cui tutti sembrano essere affamati e che sembra dare l’autorizzazione ai protagonisti della scena, di guardare la bassezza degli altri dalla loro verticalità incontrastata.
Avanzando la critica in corso ci si rende conto di entrare facilmente in collisione con questo concetto di esibizionismo verso il quale in realtà, riflettendo un mo-mento, indirizziamo tutto il nostro odio in modo inconsapevole dal momento che non si trova alcun’altra motivazione precisamente scientifica: per alcuni questo odio potrebbe derivare dall’ingiustizie vissute nei periodi scolastici dove i più abbienti disponevano del free pass per agevolazioni di ogni tipo, per altri potrebbe scaturire dall’invidia che molto frequentemente può nascere nei confronti degli ostentatori, altri ancora, che forse sono collegati al gruppo appena presentato, possono nutrire un sentimento di avversità ai danni dei “benestanti” forse per la personale crisi economica che mette in ginocchio la propria famiglia mentre sono spettatori di un gruppo di “businessmen” che prendono aperitivo agli ultimi piani di un grattacielo di Monaco.
Ma se si dovesse andar oltre a tutti questi casi particolari saremmo in grado di evidenziare un tratto universale che giustifichi questa comune avversione? L’analisi che sta prendendo forma ha per forza a che fare con il circuito culturale in cui siamo immersi e con la tradizione alla quale siamo interessati; si tenterà in sostanza di risponde-re all’interrogativo appena presentato “riesumando” pensieri filosofici passati e discorsi religiosi che con le loro propagazioni possono essere strumenti utili che per spia-nare la strada nella la nostra ricerca.
Documentandosi si nota che, nella tradizione greca e latina, non è limitato il numero di scritti in cui l’ostentazione dei propri beni viene severamente condannata come mera arroganza dal momento che ci si trova all’interno di culture, dove l’obiettivo privilegiato che l’uomo saggio doveva perseguire non era l’acquisizione di ricchezze materiali bensì l’ottenimento di quella spirituale: Aristo-tele utilizza la storia del Re Mida come condanna alla smisuratezza mentre invece, spostandoci nel mondo lati-no il nostro discorso si ancora intorno al “modus in re-bus”, famosa espressione di Orazio secondo cui << vi sono determinati confini al di qua e al di là dei quali non può esservi il giusto>>.
Continuando l’analisi non si può fare a meno di nominare la dottrina cristiana dove, attraverso la predica della Chiesa, si materializza quella tradizione secondo cui la vita simboleggia la palestra d’allenamento propedeutica alla vita eterna che Dio offre a ciascuno dei propri figli a scapito invece di una demonizzazione progressiva nei confronti ricchezze materiali; nella vita terrena, il fedele pur nella sua possibile agiatezza economica deve evitare di sfoggiare le proprie fortune, macchiandosi , altresì utilizzarle in favore di opere di carità verso chi è meno abbiente.
Forse il confluire indirettamente di queste tre tradizioni, greca, latina e cristiana, ha portato inconsapevolmente all’interno del nostro DNA etico la creazione di un tratto genetico che predispone già un’ostilità nei confronti dell’esibizione senza che in realtà sia mai capitata alcuna avvenimento nei propri confronti; si genera all’interno di ciascuno quindi un’avversità in stato embrionale che si sprigionerà quando, le vicende attinenti al problema trattato, saranno vissute in prima persona e porteranno a ri-porre nell’invidia, nell’ingiustizia la causa di tutta questa “allergia”.

 

Edoardo Villani

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