I miei ascolti in treno:  Steven Wilson e Barock Project

Non è facile scrivere alla leggera di certi generi musicali, soprattutto per gli ascoltatori come me: esploratori di mille orizzonti musicali, esperti assoluti di nulla. Però vale sempre la pena provarci.

Mi riferisco in particolare alla “musica colta”, come spesso la chiamo io: la Classica, il Progressive rock, il Jazz, la Fusion, le cui sfumature più raffinate sfuggono talvolta ai meno esperti e ai non addetti ai lavori. Tuttavia, se ci si appassiona all’ascolto, dopo poco si superano le barriere mentali generate dall’abitudine ai pezzi iper ritmati da cui siamo bombardati, per immergersi invece in atmosfere misteriose, sfaccettate e talvolta malinconiche, di un’inspiegabile profondità arcaica, in grado di regalare a tutti noi attimi di riflessione pura, quasi al pari di un libro.

Per me è stato così, per la prima volta, a 14 anni, con la P.F.M.: a suo tempo fu come entrare in un mondo fatato e indefinito, che nulla aveva da invidiare ai miei ascolti usuali tra cui figuravano Deep Purple, Dire Straits e altri gruppi meravigliosi, carichi, lontani però da quelle sensazioni profonde e particolari che caratterizzano il Progressive rock.

La mia anima è sempre rimasta votata al rock classico per tutta l’adolescenza, come forse molte di quelle della mia generazione, ma all’università avvertii di nuovo la necessità di cercare qualcosa di più profondo nella musica, senza mettere da parte la vena rock che prediligevo: all’inizio trovai Steven Wilson.

Lo sentii raccontare, non solo a parole, di una madre che aveva perso i figli e continuava ad apparecchiare la tavola per tutti, di un corvo che rifiutava di cantare, di qualcuno che era riuscito a comprendere l’armonia dell’esistenza, prima di essere costretto ad abbandonare questo mondo. Steven Wilson fu il primo -sia da solista, che con la sua band, i Porcupine Tree- a convincermi che non esistono confini così netti nelle cose, men che meno nella musica, e che tutti i tipi di musica, anche i più cervellotici, sono alla portata di tutti, se invece di sentire ci sforziamo di ascoltare.

Dopo aver scoperto Steven Wilson e i Porcupine Tree non è stato semplice scovare qualcosa che reggesse il confronto, ma i gruppi Facebook e suggerimenti di Spotify servono a questo: mi sono imbattuta nei Barock Project, il cui nome prometteva tutto ciò che stavo cercando in una band prog e anche rock. E infatti, promessa mantenuta.

I Barock Project sono una band modenese il cui frontman e compositore dei brani è il pianista Luca Zabbini, di Crevalcore; Marco Mazzuoccolo (Chitarra), Eric Ombelli (Batteria), Francesco Caliendo (Basso) ed Alex Mari (Voce) sono gli altri talentuosissimi membri dell’equipaggio. Io li ho conosciuti a partire dall’album “Skyline”, del 2015, tuttavia si tratta del quarto di 6 album pubblicati dal gruppo (il settimo uscirà nel 2019).

La prima cosa che mi ha colpito di “Skyline” è stata la copertina: l’artwork di Paul Whitehead fa pregustare un viaggio metafisico, ed è proprio ciò che avviene quando si passa all’ascolto. La mia canzone preferita è senza dubbio “The Silence of our Wake”, dalle atmosfere inizialmente calme e riflessive, che si trasformano pian piano in un tripudio di suoni brillanti e sensazioni misteriose: ogni volta che la ascolto ho l’impressione di scrutare dentro un lago profondo e riemergerne, euforica e anche un po’ sconvolta, con qualche consapevolezza in più. Altri due gioielli sono “Gold” e “Overture”, che ricorda ELP, la band dello scomparso Keith Emerson di cui Zabbini è tra i migliori interpreti odierni. Un gran bell’effetto fa anche Roadkill, la più rock dell’album Skyline, che ha il potere di renderti un po’ bipolare: ora ti commuove, poi ti esalta con le sue chitarre, infine ti cattura con quel flauto scoppiettante Jethro-Tulliano che ti avvolge in una danza Irlandese, per poi trasformarsi, nell’ultimo minuto, in una dolce ballad che richiama la melodia di un carillon.

Un album di cui invece è davvero complicato parlare è “Detachment” (2016), il mio preferito dopo Skyline: è arduo decidere quanto sia ben fatto e quale brano prediligere, perché “Detachment” è un album che migliora ad ogni ascolto. Uno di quei lavori cesellati in cui scopri sempre nuovi dettagli che ti erano sfuggiti, come un dipinto ricco di particolari sapientemente accostati. Se dovessi fare una selezione forse sceglierei Rescue me, alla portata di tutti come sound, ma per nulla scontata, Spies, Promises e One day, di cui personalmente adoro le chitarre e, in particolare in Spies, le parti di batteria. Consiglio però di ascoltare tutto l’album dall’inizio alla fine, magari in un giorno di riposo: è un’esperienza immersiva e molto varia, è praticamente impossibile annoiarsi.

Che dire… i Barock Project si esibiscono spesso sui palchi di Tokyo, ai Festival americani e in giro per il mondo, ma a Dicembre avremo la fortuna di vederli giocare (quasi) in casa: la band modenese suonerà all’Auditorium “Parco della Musica” – Roma, il 7 Dicembre dalle ore 21. In questa occasione forse scapperà anche qualche sorpresa, ad esempio alcune possibili anticipazioni sul prossimo album; per chi volesse prendere parte a questa grande serata di musica, i biglietti sono disponibili su TicketOne.

Nel frattempo, durante i mille viaggi in treno o nelle pause in biblioteca, date un’occhiata ai loro contenuti su Spotify e Bandcamp: non ve ne pentirete di certo, e chissà che il Progressive Rock non renda più piacevoli le vostre sessioni di studio!!

La vostra pendolare

Martina Suraci

Studentessa di Scienze Biologiche UNIMORE,

scrittrice e chitarrista alle prime armi

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